La Stampa 24 febbraio 2008, Marco Belpoliti, 24 febbraio 2008
Povero orecchio. La Stampa 24 febbraio 2008. Guardano, certo. Ma per la maggior parte del tempo ascoltano
Povero orecchio. La Stampa 24 febbraio 2008. Guardano, certo. Ma per la maggior parte del tempo ascoltano. Come affermano gli antichi manuali di guerra cinesi, «un esercito senza spie è come un uomo senza orecchie». E in tempo di pace? Ascoltano anche di più: le spie sono tra noi. I loro padiglioni auricolari sono ben aperti e distesi. Intercettazioni, microspie, Echelon, la rete auditiva è stesa sopra e dentro di noi. Le trame d’ascolto s’infittiscono: militari e industriali, politici e mafiosi, giornalisti e attricette, manager e calciatori, mediatori e falsificatori, prostitute e monsignori. Il fantasma dell’ascolto si è insediato, radicato tanto nei gesti quotidiani quanto nell’attualità politica, scrive un giovane e brillante musicologo francese, Peter Szendy, in un volume singolare: Intercettare. Estetica dello spionaggio (Isbn Edizioni). Il suo titolo originale è Sur coute: ovvero «sotto ascolto», ma anche «sovrascolto»; indica sia l’essere «sotto ascolto» da parte di qualcuno, ma anche una sovrabbondanza d’ascolto, eccesso d’ascolto. Nello spionaggio auditivo c’è infatti una pulsione, qualcosa di eccessivo. I nostri progenitori mitici, Adamo ed Eva, scrive Szendy, sono anche i primi ascoltatori e dunque le prime spie. Dopo aver assaggiato il frutto dell’Albero del Bene e del Male, si nascondono e spiano angosciati «i rumori dei passi» («o della voce» secondo altre versioni) dell’Eterno che cammina nel giardino. L’udito adamitico è già teso «verso gli indizi», ricorda Roland Barthes in «Ascolto» (Enciclopedia Einaudi). Szendy s’inoltra nella letteratura e nella musica, compulsa romanzi e analizza film. Vuol farci capire che l’attività della spia - i Pio Pompa del passato, del presente e del futuro - non è solo uno sporco mestiere, ma mette in gioco la natura stessa dell’ascolto a partire da quello più nobile, l’ascolto musicale, intriso di «sovrascolti», per arrivare sino all’ascolto quotidiano. Siamo tutti delle spie? O, come si crede oggi, «sono spiato, dunque sono»? Proviamo a seguire il percorso proposto dal libro. Si parte dall’Amleto, grandiosa messa in scena del «sovrascolto» inteso come indiscrezione auditiva. Nell’opera di Shakespeare tutti ascoltano tutti. Del resto è in quest’opera che compare per la prima volta la parola talpa come la usiamo oggi: è il soprannome dello spettro del padre. Amleto si rivolge a lui con una frase diventata famosa: «Ben detto, vecchia talpa». Il fantasma del re assassinato - versandogli veleno nell’orecchio - somiglia alla protagonista del racconto di Kafka, La tana: è una talpa, una spia che ascolta; sfrutta la sua invisibilità. Nella pulsione all’ascolto spionistico, chiosa l’autore, c’è una paura: quella di essere tradito. Freud lo ha spiegato nell’analisi di un caso di paranoia nel 1915: il fantasma dell’ascolto è il fantasma della «scena primaria», quella che il bambino vede, o più probabilmente ascolta, nella camera dei genitori. Sta lì, dietro la porta, origlia perché ha paura di essere tradito da loro. La differenza antropologica dell’orecchio dall’occhio, ha scritto il filosofo Adorno, grande musicologo, sta nel fatto che l’orecchio è passivo, mentre l’occhio appare attivo: la palpebra si può chiudere, l’orecchio è sempre aperto. davvero così? Barthes ha distinto tra tipi di ascolto: quello degli indizi sonori, dei nostri progenitori, animali e primati: l’ascolto come allarme. L’ascolto come decifrazione: è l’ascolto dell’uomo, decifra e interpreta. E l’ascolto «applicato»: l’atto intenzionale dell’ascolto, fenomeno del tutto moderno. Questo tipo di ascolto, quello contemporaneo, è tuttavia ancora un ascolto panico: aperto a tutte le forme di ascolto. Qui siamo vicini all’ascolto delle spie, delle talpe. Parlando di questo terzo ascolto Barthes ha scritto che non c’è più da una parte chi si confida, confessa, e dall’altra chi ascolta, tace, sanziona, valuta: ciascuno è nello stesso tempo ascoltato e a sua volta ascolta. La contemporaneità è dunque il paradiso delle spie? Barthes parla di «ascolto libero», un ascolto che circola e scambia, quindi disgrega con la sua mobilità la rete rigida degli antichi luoghi d’ascolto: il carcere, il confessionale, la camera da letto. La nostra è l’epoca dell’«ascolto intersoggettivo», in cui le società disciplinari - quelle dell’ascolto unidirezionale - sono sostituite dalle società di controllo, scrive Deleuze: multidirezionali. Ai luoghi tradizionali dell’ascolto (ospedale, fabbrica, scuola, famiglia) si sostituisce l’ascolto a rete ben descritto in Nemico pubblico (1998) del regista Tony Scott: il satellite, ma anche le masse come campione, di cui parla Deleuze, per cui i sondaggi o i dati raccolti attraverso le «carte» sono ascolti, spiate legali. Ma torniamo al suono e alla voce. Il grande direttore d’orchestra Wilhelm Furtwängler negli anni Cinquanta ha teorizzato una forma di «ascolto a distanza», il «teleascolto». Di cosa si tratta? Quando si ascolta un brano musicale classico, ad esempio Bach, ci si concentra sull’istante, ma al tempo stesso non si perde di vista l’ascolto d’insieme, l’intero brano. Questo è il «teleascolto»: l’opera si «sovrascolta» anche da distanza, nell’insieme. Ora nella musica jazz questo non ci sarebbe più: una giungla primitiva in cui le orecchie vengono assalite da ogni direzione. Qualcosa di primitivo, simile all’ascolto animale della caccia di cui parla Barthes. Un dj inglese, Robin Rimbaud, censito in Sonic Process, la mostra del Beaubourg sulla nuova geografia del suono del 2002, lavora con un ricettore radio a lungo raggio che stravolge, mixa e rimixa le conversazioni intercettate sulle frequenze dei telefonini. Si firma Scanner e agisce come uno spione. La sua musica è voyeristica e somiglia a quello che Altman ha fatto all’inizio di America oggi con la telecamera che vola sulla città e si sentono tutte le conversazioni degli abitanti. Anche Wenders nel Cielo sopra Berlino mostra l’ascolto: gli angeli come spie di Dio. Questo è l’ascolto contemporaneo strettamente imparentato con quello delle talpe elettroniche. Lo spione non possiede l’ascolto a distanza, il «teleascolto», ovvero la capacità di connettere il dettaglio e il generale. Quando un intercettatore, ad esempio Henri Caul messo in scena da Coppola in La conversazione (1974), raccoglie «voci», informazioni, è confinato in un contesto il cui orizzonte generale gli sfugge. Sono orecchie, scrive Szendy, che qua e là interrompono il loro compito di attenta sorveglianza «sulla soglia di una totalità la cui portata non è accordata loro, sebbene sia l’unica in grado di trasfigurare i dettagli raccolti illuminandoli restrospettivamente di senso». Questo accade a Henri, che da ascoltatore si trasforma in ascoltato. In realtà egli è sempre stato entrambe le cose, solo che non lo sapeva. Capisce di essere «dentro» e «fuori» nel medesimo tempo. Anzi, non c’è un più un fuori, l’ascolto è totale, sebbene si tratti di un ascolto di dettagli. La vera spia si vota ai dettagli. Non osa o non vuole acquisire il generale. La connessione dei dettagli, spiega Adorno, parlando dell’ascoltatore radiofonico - la radio come spia - è una sorta di trama dell’orecchio. E noi in che posizione ci troviamo? Qualcuno ci spia? Probabile. Tutti ascoltano tutti. L’unica via d’uscita è quella offerta dal personaggio interpretato da Robert Redford nei Tre giorni del condor (1975): oscuro lettore di libri, uomo periferico di un ufficio della Cia, per caso s’imbatte un giorno in un segreto criptato, celato in un libro. Uccidono tutti nell’ufficio per questo, ma lui scampa casualmente. Fugge ed è inseguito. Caduto in una trama più grande - servizi deviati - è costretto da «ascoltatore strutturale» a diventare spia, a votarsi ai dettagli. Sono i dettagli che lo salvano, ora dopo ora. Un futuro da spie per tutti? Molto probabile, poiché, come ci ricorda Szendy, è l’ascolto stesso che porta con sé, quale suo doppio, la spia. Marco Belpoliti