Avvenire 24 febbraio 2008, ANDREA LAVAZZA, 24 febbraio 2008
Neuroscienze in tribunale Così cambierà il processo. Avvenire 24 febbraio 2008. All’inizio degli anni Novanta, l’avvocato di Herbert Weinstein, manager 65enne accusato di aver strangolato la moglie e di averla gettata dal dodicesimo piano dell’appartamento di Manhattan simulando un suicidio, sostenne che una grande cisti che premeva sulla membrana aracnoide del suo assistito, provocandogli una menomazione cerebrale, lo rendeva non responsabile della propria condotta
Neuroscienze in tribunale Così cambierà il processo. Avvenire 24 febbraio 2008. All’inizio degli anni Novanta, l’avvocato di Herbert Weinstein, manager 65enne accusato di aver strangolato la moglie e di averla gettata dal dodicesimo piano dell’appartamento di Manhattan simulando un suicidio, sostenne che una grande cisti che premeva sulla membrana aracnoide del suo assistito, provocandogli una menomazione cerebrale, lo rendeva non responsabile della propria condotta. Il giudice permise che si portasse in aula l’esito della risonanza magnetica, ma non che si affermasse la correlazione tra il danno e un’inclinazione alla violenza. Il procuratore, timoroso che la concessione minasse l’impianto accusatorio, accettò allora di patteggiare prima del dibattimento. Il neuroscienziato Daniel Martell, chiamato come perito nel caso, cominciò a ricevere decine di convocazioni. E, in seguito, ha fondato una propria società di consulenza, la Forensic Neuroscience Consultants. L’attentatore di Reagan Sono passati 15 anni da quel procedimento in cui fece il suo ingresso la nuova psichiatria, la quale nutre una crescente certezza che il comportamento patologico abbia una spiegazione da ricercare a livello neurobiologico, ovvero di geni e neuroni. Ma già nel 1982, al processo contro John Hinckley, l’attentatore del presidente Reagan, il giudice due volte rifiutò di ammettere una tomografia cerebrale che, mostrando larghi solchi nel cervello, doveva certificare la schizofrenia dell’imputato, finendo poi per dare l’assenso. E la giuria riconobbe l’infermità di mente dell’imputato. Oggi, in quasi ogni processo americano che coinvolga un reato suscettibile della pena capitale sono richieste – e ormai sempre concesse – risonanze magnetiche funzionali (fMRI) o tomografie a emissioni di positroni (PET), esami in grado di valutare la funzionalità (misurandone l’attivazione grazie al flusso ematico) di specifiche aree cerebrali. L’obiettivo è quello di evidenziare lesioni o difetti neurologici tali da annullare il controllo volontario dell’imputato. «Non l’ho fatto io, ma il mio cervello», è la paradossale sintesi di tali strategie difensive. Pedofilo per un tumore divenuta emblematica la vicenda di un tranquillo insegnante della Virginia che, nel 1999, cominciò a manifestare comportamenti sessualmente disturbati, fino alle molestie dirette nei confronti della figliastra. Denunciato dalla moglie e arrestato, in carcere si sentì male e infine gli venne diagnosticato un tumore nella fossa cranica anteriore, che comprimeva il lobo frontale destro. Grazie a un complesso intervento chirurgico, la neoplasia maligna fu rimossa, e con essa scomparvero anche le tendenze pedofile, che l’uomo ammetteva ma alle quali diceva di non potere resistere: venne quindi rilasciato e rientrò a casa dalla famiglia. Due anni più tardi ritornarono i mal di testa e l’impulso pedofilo irrefrenabile, ma il professore questa volta si presentò subito in ospedale, dove gli fu riscontrata la ricomparsa dell’emangiopericitoma. Una seconda operazione permise la guarigione e la remissione delle tendenze sessuali devianti. La Corte Suprema e i minori Le perizie dei neuroscienziati hanno avuto un ruolo anche nella sentenza (Roper contro Simmons) con cui la Corte Suprema Usa, nel 2005, ha giudicato incostituzionale la pena di morte per i minorenni. Gli adolescenti – scrisse Ruben Gur in un parere sottoposto ai nove giudici – non sono in grado di controllare pienamente i propri impulsi perché i neuroni della corteccia prefrontale (responsabile dell’autocontrollo) raggiungono solo verso i 20 anni (o forse anche oltre) il loro pieno sviluppo. Nella motivazione della sentenza non si fa cenno esplicito a queste considerazioni, che certamente pesarono nella decisione. Il confine normalità-patologia Il problema diventa allora quello di definire il confine tra normalità e patologia. Per questo, negli Stati Uniti, dove la questione è al centro di un dibattito assai animato, è stato appena lanciato un grande progetto di ricerca, finanziato con 10 milioni di dollari dalla fondazione MacArthur, che coinvolge 25 università del Paese. Lo scopo è quello di valutare l’impatto diretto delle neuroscienze sul diritto e formare i giudici che si trovano alle prece con le nuove tecnologie di analisi portate in aula dai collegi di difesa. «Dal punto di vista giudiziario, si deve stabilire se, di fronte allo stimolo o alla tendenza a commettere un reato, esiste una cosiddetta controspinta – riassume Guglielmo Gulotta, noto avvocato e docente di Psicologia sociale all’università di Torino ”. Di conseguenza, qualora non mi curi di tale controspinta, risulterò catalogabile come penalmente processabile; nel caso invece ne sia privo a causa di qualche infermità, sono da considerare malato e non imputabile. E le neuroscienze sono adesso in grado di dare consistenti indizi in merito». «La legge deve punire i colpevoli» Secondo lo psicologo di Harvard Joshua D. Green (con il collega di Prin-ceton Jonathan D. Cohen uno dei più accesi sostenitori del fatto che le neuroscienze richiedano una ridefinizione dei concetti di colpa e punizione), «nulla causa il nostro comportamento al di fuori delle operazioni compiute dal cervello di cui siamo dotati». «Quando sono presenti alcune gravi lesioni, si può conoscere la differenza tra bene e male ma non essere in grado di trattenersi. Siamo semplicemente di fronte a una vettura guasta, per la quale un processo è del tutto irrilevante», sostiene Robert Sapolsky, neurobiologo a Stanford. «Contano le persone «I crimini vengono commessi da persone, non da cervelli – ribatte Stephen J. Morse, docente di Diritto e Psichiatria all’università della Pennsylvania ”, ogni azione ha una causa, questo però non significa che la legge debba rinunciare a perseguire i colpevoli. Si prenda il caso dei giovani che non avrebbero ancora il pieno autocontrollo: se così fosse, i tassi di criminalità dei sedicenni sarebbero uguali in tutto il mondo (i cervelli sono simili). Eppure non è così: nei Paesi scandinavi, i ragazzi delinquono molto meno che negli Stati Uniti». Due prospettive inconciliabili Una contrapposizione di vedute che non avrà facile soluzione. «La giustificazione del confine tra una persona che è in condizione di frenare i propri impulsi e una che non ne ha la forza, distinzione decisiva per l’imputabilità, rimane controversa: può cambiare in base al criterio utilizzato (ad esempio, schizofrenia o disturbo borderline di personalità) – spiega Pietro Pietrini, professore di Biologia molecolare all’università di Pisa ”. E sempre più spesso potrà accadere che il giudizio di valore venga trasferito dai giudici agli esperti». Le neuroscienze cambieranno senz’altro la giustizia, ma difficilmente potremo rinunciare all’idea di responsabilità per le nostre azioni perché, come sostiene Michael Gazzaniga, autore di Mente etica, di essa non si troveranno mai i correlati neuronali: è qualcosa che ascriviamo alle persone, non ai cervelli. Andrea Lavazza