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 2008  febbraio 21 Giovedì calendario

L’innovazione, non l’innovatore. Nova 21 febbraio 2008. Ce lo avevano detto a scuola, che le opere sono spesso più grandi dei loro autori

L’innovazione, non l’innovatore. Nova 21 febbraio 2008. Ce lo avevano detto a scuola, che le opere sono spesso più grandi dei loro autori. Poteva essere un modo, pensavamo allora, per glissare su certe nefandezze difficilmente dissimulabili che punteggiano le biografie di alcuni numi tutelari della letteratura e dell’arte. Eppure ci urge adesso estendere questo luogo comune alla scienza, in particolare alla biologia. Se la biologia del ventesimo secolo ha un nume questi è, senza alcun dubbio, il settantanovenne James Dewey Watson. Watson è stato, insieme a Francis Crick e ad appena 25 anni, il risolutore dell’enigma della struttura del Dna, intuizione che ha aperto la strada della comprensione della base materiale del l’eredità biologica. Ovvero, Watson ha inventato l’icona scientifica del nostro tempo, la doppia elica, e ha rivelato la chiave per capire l’azione più stupefacente delle cose viventi, il produrre da sole copie di se stesse. Dopo questo folgorante incipit ha continuato a mietere successi: aggiudicandosi il premio Nobel e diventando il direttore dei Cold Spring Harbor Laboratories, un tempio della grande scienza americana, dirigendo la prima fase del Progetto Genoma Umano, e pubblicando nel tempo libero forse il libro di divulgazione scientifica più letto e citato, «The Double Helix», e il testo universitario di biologia molecolare modello di riferimento per tutti i successivi. Ebbene, questo innovatore di genio qualche mese fa, in un’intervista rilasciata per la pubblicazione della sua autobiografia, ha dichiarato di essere «fondamentalmente scettico sulle possibilità dell’Africa» perché «tutte le nostre politiche sociali sono basate sul fatto che la loro dei neri, ndr intelligenza è come la nostra, mentre tutti i test ci dicono che non è così». Watson si sarebbe augurato che tutti gli esseri umani fossero uguali, ma è sempre stato smentito dalle «persone che hanno a che fare con impiegati neri, le quali osservano come ciò non sia vero». Comunque, chiosa in un momento di magnanimità, «è bene non discriminare a priori sulla base del colore della pelle», perché «ci sono molte persone di colore con grandi talenti, ma certe persone fra i neri, ovviamente è meglio non promuoverle quando hanno riportato insuccessi ai livelli più bassi». Watson argomenta che non c’è ragione scientifica solida per ritenere che le capacità intellettuali di individui che siano stati separati geograficamente nella loro evoluzione si siano sviluppate nello stesso modo. Una specie di principio razzistico di precauzione: non sappiamo abbastanza per escludere che eccetera. Lo stesso strumento retorico usato nel dibattito sugli Ogm, che meriterebbe un commento di per sé. Non ne sappiamo abbastanza, certo. Ma su quasi tutto, sfortunatamente, e siamo lo stesso, ed efficacemente, molto assertivi sul mondo. Lasciamo perdere le reazioni immediate dei commentatori, a questa dichiarazione del padre della biologia moderna, che il lettore potrà immaginare. La cosa curiosa, la cosa interessante, è che questa stupida, errata, miserrima, esecrabile idea, pericolosa quanto mai in un mondo che gronda ancora, dopo millenni di carneficine, del sangue che sgorga dai gradienti del colore della pelle, ha avuto, se mai ce ne fosse ancora bisogno, una risolutiva, finale smentita scientifica. E la smentita è venuta proprio dagli studi che Watson, con la sua opera, ha permesso: gli studi sul genoma. Confrontando il grado di variabilità presente nel genoma di individui appartenenti a «gruppi etnici» differenti, diciamo popolazioni di origine africana, europea e asiatica, emerge adesso con chiarezza cristallina come il 90% della variabilità si trovi all’interno di ciascuno di questi gruppi, mentre solo il 10% deriva dalla comparazione fra i gruppi. Come dire: se prendete un bantu e un finlandese a caso, questi hanno un’elevata probabilità di essere geneticamente più simili di quanto non lo siano due bantu e due finlandesi. E per di più questa variabilità che ci ossessiona riguarda appena lo 0,1% del genoma umano. Siamo davvero tutti uguali, fino alla noia, e ce lo dice proprio il Dna di James Watson, visto che è stato sequenziato completamente da poco. La sfortuna è che lo 0,01% (un decimillesimo) della diversità del genoma, qualche granello di sabbia in una clessidra, riguarda il nostro involucro – il colore della pelle, la forma del volto, il colore degli occhi – perché rappresenta adattamenti climatici, e il clima (il sole, l’umidità) lo si fronteggia con l’involucro (la pelle, le narici). La melanina colora la pelle, gli occhi, i capelli perché questo rappresenta un’efficace protezione dal potere mutageno, sempre sul Dna, dei raggi ultravioletti del sole. Una pelle chiara, invece, sembra essere un vantaggio in un contesto di insufficiente luce solare, come nelle aree dell’Europa settentrionale, visto che i raggi ultravioletti devono passare nella cute per convertire l’ergosterolo nel fattore essenziale vitamina D. E così via. Essendo tanto macroscopiche, queste varianti dell’involucro tendenti a zero in quanto a impatto genetico sono diventate un pretesto eccezionale per massacrarci per secoli, a copertura degli altri motivi, quelli veri. Se poi andiamo ad affrontare il punto dell’indefettibile James, l’intelligenza, potremmo rileggerci i documentati commenti, ormai classici, che Richard Lewontin e Stephen Jay Gould hanno scritto anni fa in merito. Il nefando indice numerico che dovrebbe quantificare l’intelligenza, il famoso Iq a cui Watson fa riferimento quando parla di «test», è il modo col quale negli Stati Uniti si è misurata per decenni la congruenza di certi individui a certi mestieri, ed è di fatto una delle montature parascientifiche più gravi e dannose del secolo scorso. Chissà perché queste cose non fanno notizia. Chissà perché si dibatte per centinaia d’anni sul nulla e quando arrivano le prove definitive e inoppugnabili di qualcosa di così centrale, di così radicale per la nostra umanità nessuno se ne accorge, perché non è una scoperta, ma come tutte le cose vere e importanti un processo di conoscenza accumulativo che a un certo punto diventa certezza scientifica. Fidatevi dell’innovazione, d’ora innanzi, e mai degli innovatori. Fidatevi di quella innovazione che diventa, appunto, corpo consolidato di conoscenza, anche se non produce un nuovo, curioso gadget telematico. Con buona pace dell’anziano James l’innovatore questo è un gadget micidiale per le nostre teste. Scagliatelo nella blogosfera, lettori di Nòva, fatene l’uso sociale che merita, e aiutate noi poveri biologi, che non usciamo volentieri dai laboratori, a costruire la cultura di un mondo migliore. ALESSANDRO QUATTRONE Alessandro Quattrone è direttore del Cibio (Centro per la biologia integrata) dell’Università di Trento Nato a Chicago il 6 aprile 1928, James Dewey Watson è un biologo statunitense, noto per aver scoperto la struttura della molecola del Dna insieme a Francis Crick e Maurice Wilkins. I tre hanno ricevuto il premio Nobel per la medicina nel 1962 proprio per le scoperte sulla struttura molecolare degli acidi nucleici e del suo significato nel meccanismo di trasferimento dell’informazione negli organismi viventi. Nel 1988 Watson fu posto alla guida del Progetto Genoma Umano, che lasciò in seguito all’opposizione all’idea di poter commercializzare i geni, brevettandoli o sottoponendoli a un qualche diritto d’autore.