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 2008  febbraio 22 Venerdì calendario

Il killer delle api. La Repubblica 22 febbraio 2008. La goccia è tonda, lucente, desiderabile. All´alba di una siccitosa giornata primaverile, l´ape bottinatrice si disseta prima di cominciare la raccolta

Il killer delle api. La Repubblica 22 febbraio 2008. La goccia è tonda, lucente, desiderabile. All´alba di una siccitosa giornata primaverile, l´ape bottinatrice si disseta prima di cominciare la raccolta. Cosa può essere più poetico di un´ape che beve una stilla di rugiada? Una stilla tonda, lucente, desiderabile. E avvelenata, come la mela di Biancaneve. La bottinatrice non tornerà all´alveare, stasera. Cadrà in catalessi, istupidita dal narcotico: e non ci sarà principe azzurro che la possa svegliare. Un´ape senza alveare, un´ape vagabonda e ubriaca, è un´ape morta. Così infatti ne sono morte a migliaia, a milioni, anzi a decine di miliardi, tra la scorsa primavera e l´inverno che sta terminando. Abbiamo perso di colpo quasi la metà dei 55 miliardi di api d´Italia. Perse davvero: non si trovano neppure i corpicini del reato. Nessuno le piange, tranne gli apicoltori come Nino Scacchi, che se n´è accorto un giorno aprendo un´arnia: traboccante di ottimo miele, piena di larve sane ma ormai morte di fame, per il resto vuota, dolorosamente deserta di vita. «Non riuscivo più a parlare. Non m´importava neanche del raccolto. Sono esseri viventi, soffrono. Cosa gli stiamo facendo...». Cosa stiamo facendo alle api? Un assassinio di massa, un´ecatombe. No, peggio: un genocidio. Peggio ancora: un genocidio con tradimento di un patto ultramillenario. Scacchi scoperchia l´alveare a mani nude, non scaccia l´ape che gli punge un braccio, la sgrida solamente: «fai pure, se vuoi, ma ti sbagli»; nel brulichio di migliaia di corpicini striati color cuoio riconosce a colpo d´occhio la regina che sta deponendo, «guardi lì che bella bionda...». Spiega: «Noi siamo allevatori. Manzi o api, non c´è poi differenza. Anzi no, c´è: noi i nostri vitelli non li macelliamo, e neppure li mungiamo». Un alveare consuma il settanta per cento del miele che produce, «noi preleviamo solo l´eccedenza», una specie di pagamento in natura per la parte di lavoro che l´uomo mette nell´impresa comune: costruisce la casetta, la piazza in zone strategiche, a volte la trasloca per rincorrere fioriture diverse, predispone i favi con un foglio sottile di cera già disegnato a esagoni, così le api di casa fanno prima a costruire le celle. Va avanti così dall´epoca dei faraoni. Forse sta per finire. Facciamo pure un po´ gli apocalittici: non ci sbagliamo di molto. Morie di massa, la storia dell´apicoltura ne registra diverse, storica quella del 1868 in Kentucky, feroce quella del 1906 nell´isola di Wight. Ma negli ultimi dieci anni il ritmo delle catastrofi è accelerato, negli ultimi cinque s´è fatto strano e frenetico. Mai s´erano viste prima d´ora "famiglie" nel rigoglio della stagione perdere di colpo tutto il personale "sul campo". Se ne sono accorti prima in America, dove all´ultima e più misteriosa strage hanno dato un nome complicato, come si fa quando non si capisce un fenomeno: Ccd, Colony Collapse Disorder, in italiano "sindrome da collasso degli alveari". Ora il flagello è in Europa. In Italia, paradiso del miele, il 2007 è stato un anno listato a lutto: in tutto il nord, perdite segnalate tra il 30 e il 50 per cento, 200 mila alveari colpiti, difficoltà a ricostituire le famiglie decimate, produzione di miele quasi dimezzata, un settore da 60 milioni di euro annui a rischio, un danno da 250 milioni già certo. Ci togliamo le tute e il berretto a rete e continuiamo il giro tra le colline del Monferrato e le prealpi novaresi, il «triangolo delle robinie», dove si fa il miglior miele d´acacia del mondo, dove ci sono aziende da migliaia di alveari, specializzate, moderne come quella di Ezio Poletti a Cavaglietto: «Le api hanno molti nemici storici, i parassiti, le malattie, anche gli inquinanti. Noi siamo abituati a combattere», rivendica. Con la varroa, ad esempio, è un corpo a corpo da almeno vent´anni, da quando quest´acaro immigrato, venuto dall´estremo Oriente sulle rotte degli uomini, ha aggredito la nostra straordinaria ape nazionale, la mellifera ligustica, la più laboriosa del mondo, che i suoi parassiti li teneva a bada da millenni, ma a quelli stranieri non c´era abituata. «Un parassita scemo, un kamikaze: uccide la sua fonte di nutrimento». Qualche anno meglio, qualche anno peggio, ma dalla varroa ci si difende. «Questo invece è un nemico nuovo, che fa paura, che ci svuota gli alveari in silenzio, senza lasciare neanche una traccia». Questo è il dramma: quando ai vecchi nemici biologici o metereologici (il 2007 è stato un anno secco e caldo, che ha spossato e affamato le api) si sommano i nemici chimici, come è successo l´anno scorso, allora la battaglia è quasi persa in partenza. Contro i pesticidi, gli anticrittogamici, contro la chimica che tanto cura quanto ammazza, gli apicoltori sono impotenti. Due anni fa Alessandro Piemontesi scoprì il rischio di tenere i suoi alveari vicino alle vigne irrorate a ripetizione con tiamethoxan contro la flavescenza dorata. «Quel mattino sentii per prima cosa l´odore, e avevo già capito tutto, ancora prima di arrivare all´apiario e vedere il prato coperto da un tappeto d´api morte e ormai imputridite». Eroiche per istinto, povere piccole: quando si sentono male escono dall´alveare, vanno a morire fuori, per non contaminare il miele. Che infatti resta puro, incontaminato. Ci rimettono solo loro. Ma il nuovo assassino senza volto è ancora più vigliacco. un occultatore di cadaverini. «Non lo puoi neppure guardare negli occhi», si sfoga con amarezza impotente Sergio Zaninetti di Fontaneto d´Agogna, che tanti anni fa era operaio metalmeccanico, poi passò a far l´allevatore di operaie, «ma non dica padrone che la parola non mi piace». Anche Scacchi faceva un altro mestiere, trent´anni fa: era maresciallo dell´aeronautica militare. Poi uno sciame vagante fece il nido in un hangar, nessuno voleva toglierlo da lì, ci pensò lui con l´aiuto di un libro preso in biblioteca. Le guardò lavorare. S´innamorò di colpo, lasciò la divisa: «Avevo semplicemente sbagliato tipo di ali». Scacchi è cocciutamente innamorato delle sue «bestioline». La scorsa estate, trovato il nido deserto di api anziane raccoglitrici, le andò a cercare. Ne trovò qualcuna: «Grappoli di tre o quattro, appese a un ramo, stordite, tremanti, facevano pena. Un´ape sana, se le dai una botta sul culetto, s´alza in volo arrabbiata. Quelle cadevano per terra intontite. Completamente fatte. Dissi ad alta voce: porca miseria, m´hanno rincoglionito le api». Nulla di più esatto. «Tra noi ricercatori le chiamiamo ”api fumate´», conferma dall´Università di Bologna Claudio Porrini, forse il maggiore esperto italiano di patologia delle api. Dell´assassino senza volto, lui sospetta l´identità: sono gli insetticidi neonicotinoidi a base di molecole neurotossiche (vietati da anni in Francia proprio perché sospetti di apicidio), usati sul girasole o sul mais. Le multinazionali della chimica negano, le autorità sanitarie e i ministeri non prendono provvedimenti, la colpa viene ributtata sugli apicoltori "incapaci". «Siamo i migliori allevatori del mondo, la nostra ape è esportata, i nostri metodi imitati ovunque», ribatte con irritazione Francesco Panella, presidente dell´Unione degli apicoltori. C´è anche l´ipotesi, forse messa in giro ad arte, che la colpa sia dei campi magnetici dei telefoni cellulari. «Tecnicamente plausibile, statisticamente improbabile», stabilisce Porrini. «Ne siamo ormai certi, gli imputati sono i neonicotinoidi». Farmaci sistemici, si dice: ne vengono irrorati i semi, "conciati" per la precisione dei termini, prima di piantarli. Procedimento che dovrebbe produrre una minor concentrazione del pesticida. Ma qui sta il guaio. La polverina, durante la semina, si solleva e poi si posa inevitabilmente sull´erba dei fossi, sulle foglie degli alberi vicini, dove la rugiada se ne imbeve; e le api che, nella stagione secca, hanno solo la rugiada come dissetante, ne assorbono concentrazioni non letali, ma sufficienti a istupidirle. A far perdere loro per ore la cognizione del tempo e dello spazio. «Vagano intontite, e quando tornano in sé sono troppo lontane dall´alveare, non trovano più la strada, i loro sistemi d´orientamento non funzionano più». Poche miracolosamente tornano, ma ancora annebbiate non trovano l´entrata dell´arnia, rinunciano, vanno via, diventano vagabonde, destinate a morte certa. C´è da esserne proprio fieri: abbiamo trasformato oneste lavoratrici in barbone drogate. Povere «verginelle volanti, peregrine lucenti, delicate maestre, pargolette romite» dei sonetti barocchi. Loro «che a guardarle lavorare nei giorni di fioritura ci si commuove», dice Scacchi con la voce che tremola, «tanto sono eccitate e felici, frenetiche che neppure ti badano». Che paradosso, che fiaba triste da La Fontaine postmoderno. Trent´anni fa Pasolini pianse la sparizione delle lucciole: cioè la scomparsa della poesia, del sogno. Dobbiamo cominciare a piangere la scomparsa della laboriosità, della socialità, dell´onestà. Ogni epoca ha i suoi olocausti simbolici. «E i bombi allora?». Scusi, Nino? «I bombi, ci sono anche loro. I cugini selvatici delle api. Questa roba maledetta uccide sicuramente anche loro. Ma non ce ne accorgiamo, perché nessuno alleva i bombi. O le farfalle». Abbiamo perso anche le farfalle? «Ne vede molte in giro? tutta una catena. Solo che noi, i nostri alveari, con grandi sforzi cerchiamo di ripopolarli, finché ce la faremo, perché c´è un punto critico anche nello spopolamento, sotto una certa soglia una famiglia non "rimonta" più. Ma i bombi non li "rimonta" proprio nessuno». Eppure ci servono anche i pelosetti bombi, come le api, come tutti i loro parenti selvatici: la nostra alimentazione dipende dagli insetti pronubi che durante la raccolta portano il polline da un fiore all´altro e sposano le piante, mezzani dell´amore vegetale, ginecologi della natura. Lavoratrici in nero, non pagate: se gli agricoltori dovessero restituire alle api il valore aggiunto del loro lavoro, dovrebbero versare 1240 euro ad ogni alveare. Ma insostituibili: la macchina per impollinare le piante non l´hanno ancora inventata. Quel piccolo lavoro da postino che trasforma i fiori in frutti, all´80 per cento lo fanno ancora, come dall´inizio dei tempi, gli insetti. Il resto lo fa il vento. Senza le api, non crescerebbe più nulla. «Se anche inventassero l´impollinatrice meccanica, non la userebbero certo per gli sterpi dei fossi o le erbacce: ma all´equilibrio naturale servono anche loro». Scacchi punta il dito: «Non credo abbiamo capito cosa ci stiamo giocando davvero. Non stiamo rischiando solo il vasetto di miele a colazione. Stiamo rischiando tutto quanto il pane quotidiano». Negli Usa la moria delle api ha gettato nella disperazione i coltivatori. In California la sola produzione di mandorle ha bisogno di una "manodopera" di un milione e trecentomila alveari: «Là gli agricoltori ti pagano per portargli gli alveari nel frutteto». Anche da noi, in Trentino, i produttori di mele si stanno mettendo d´accordo con gli apicoltori. Se manca la micro-manodopera, i fruttivendoli vanno in bancarotta. «Se morissero tutte le api, all´uomo resterebbero quattro anni di vita», non c´è apicoltore che non citi a memoria questa battuta di Einstein. Sarà meglio cominciare a tenere d´occhio il calendario. «Noi possiamo anche cambiare mestiere. Ma le api no. La natura no». Scacchi è demoralizzato. «Sa quell´acaro scemo, l´acaro kamikaze che uccide l´ape e quindi il suo stesso cibo? Ecco, ho capito una cosa. I veri acari scemi, i kamikaze suicidi, siamo tutti quanti noi, gli umani». MICHELE SMARGIASSI