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 2008  febbraio 24 Domenica calendario

Quando ero Fidelito. La Repubblica 24 febbraio 2008. Evidentemente sono nato con la vocazione del politico, con la vocazione del rivoluzionario

Quando ero Fidelito. La Repubblica 24 febbraio 2008. Evidentemente sono nato con la vocazione del politico, con la vocazione del rivoluzionario. Sembra molto difficile che nelle condizioni ambientali in cui sono cresciuto possa essersi sviluppato un rivoluzionario. A renderlo possibile, è stato semplicemente il mio istinto politico e rivoluzionario. Perché lo dico? Uno degli aspetti più significativi è questo: quando avevo diciotto anni, dal punto di vista politico ero un analfabeta. Se si tiene conto di queste circostanze, cioè che non venivo da una famiglia politicizzata, che non ero cresciuto in un ambiente politicizzato, il fatto di aver svolto un ruolo rivoluzionario dopo un tempo relativamente breve e di aver compiuto un grande apprendistato rivoluzionario non sarebbe stato possibile per un individuo che non avesse avuto una predisposizione particolare in tal senso. Quando entrai all´università, dopo il diploma, non avevo nessuna cultura politica, né dal punto di vista economico, né dal punto di vista sociale, né dal punto di vista ideologico. fino ad allora, le cose che mi interessavano erano fondamentalmente altre, ad esempio lo sport, le escursioni in mezzo alla natura, tutte quelle attività che in un certo senso davano libero sfogo a un´energia naturale grande, a una grande passione per le cose. A quell´epoca, probabilmente, quella energia, quello spirito combattivo si traducevano in uno sforzo sportivo, nelle gare sportive, nelle escursioni in mezzo alla natura. Cerco di ricordare quando fu che cominciai a scrivere le date sulla lavagna: probabilmente era intorno al 1930, al 1931, quelle date che scrivevo quando aveva circa quattro anni. Naturalmente, la maggior parte del tempo la passavo a commettere impertinenze a scuola. Forse per la situazione della mia famiglia, o per l´età, o non so per quale altro motivo. Ricordo che avevo quest´abitudine: quando non ero d´accordo con quello che mi diceva la maestra, o volevo fare lo spavaldo, insultavo la maestra e immediatamente uscivo dalla scuola correndo. C´era una specie di guerra tra noi e la maestra. Quando insultavamo la maestra con le parolacce che avevamo imparato dai lavoratori, uscivamo correndo, scappavamo. Un giorno, dopo aver insultato la maestra, scappai per il corridoio sul retro; dovevo saltare giù e così feci, e cadendo c´era il coperchio di una scatoletta di dolce di guaiava che aveva un piccolo chiodo, e io cado e mi conficco il chiodo nella lingua. E avevo appena insultato la maestra! Non mi dimenticherò mai che quando tornai a casa, mia madre mi disse: «Dio ti ha punito per aver insultato la maestra». E a quell´epoca non potevo avere il minimo dubbio che fosse effettivamente così. In quella scuola imparai a leggere e scrivere molto presto. Non so se fosse perché davo molto impegno a casa, perché ero diventato troppo irrequieto o perché la maestra convinse la mia famiglia che sarebbe stato meglio mandarmi a scuola. A quell´età, e soprattutto quando la famiglia è benestante, dicono sempre che i figli sono intelligenti. Partimmo in treno per Santiago; non ero mai stato a Santiago. Ricordo che quando arrivammo, e scendemmo alla stazione, mi sembrava tutto straordinario: era una stazione che aveva archi di legno, il viavai, la gente. Arrivammo in città e ci sistemammo a casa di una cugina della maestra. Ricordo che la prima notte urinai nel letto. Dopo venne il periodo della lotta. La lotta contro Machado era al suo apice, tutte le notti c´erano bombe e attentati. In un certo senso presi parte a quella fase di terrore: dormivo in uno di quei piccoli soppalchi vicino alla porta sul retro, e quando lì vicino esplodeva una bomba mi svegliavo. Le esplosioni delle bombe mi svegliavano spesso, in quel quartiere vicino all´Istituto, dove gli attentati avvenivano ogni notte. Credo fosse il 1932, avevo forse sei anni. Frequentavo la scuola ma non ci dormivo, e mi sentivo in una situazione peggiore di quelli che vivevano nella scuola, perché a loro tutti i giovedì e le domeniche li portavano al mare, li portavano a fare una passeggiata; la mia vita invece era molto monotona. E allora, io che ero sempre indisciplinato, e che per questo venivo continuamente minacciato che se non mi fossi comportato bene sarei stato spedito a vivere dentro la scuola, un giorno decisi che preferivo andare a vivere nella scuola. Tutto questo coincise con una volta in cui mi avevano picchiato in casa; non ricordo per quale motivo il mio padrino, che mi faceva da tutore, mi diede due belle sculacciate. Io, che avevo già preso la decisione, mi ribellai, insultai tutti quanti, dissi tutte le cose che avevo voglia di dire a tutti da un mucchio di tempo. E di fronte a una situazione come quella, a quel mio comportamento insopportabile, la conseguenza fu che mi presero e mi portarono dritto a scuola, e da quel momento dormii lì. Per me fu una grande conquista, mi sentivo felicissimo, perché finalmente avrei avuto una vita uguale a quella di tutti gli altri ragazzini. Quando stavo in terza elementare, mi ricordo che un giorno stavo parlando con uno degli ispettori incaricati di sorvegliarci. E stavo parlando di quanto guadagnava il padre di quello, quanto guadagnava il padre di quell´altro, e mi ricordo che raccontai alcune cose che avevo sentito a casa mia, gli spiegai che certi giorni, a casa mia, mio padre guadagnava anche trecento pesos con il commercio del legname e tutti gli altri affari che faceva. L´ispettore rimase molto colpito, e a partire da quel momento cominciò a mostrare un comportamento particolarissimo, molto attento, molto gentile nei nostri confronti. Già dalla scuola si vedeva un trattamento differente, a seconda dei guadagni e della ricchezza della famiglia. Dopo quel giorno, quando stavo ancora in terza elementare, fecero una stanza solo per noi tre: per me, per Ramón e per Raúl (Raúl aveva all´epoca quattro o cinque anni, io ne avevo otto). E ci fecero anche passare un anno avanti. Ma a quel tempo stavamo ancora in terza e il giovedì e la domenica andavamo a Renté a bordo di una lancia chiamata El Cateto, che impiegava un´ora per andare dal molo della Alameda fino a Renté, attraversando la baia. Quando tornavamo da Renté, di sera, salivamo fino alla scuola, il collegio de La Salle, passando per una delle strade della Alameda, e attraversavamo una zona che stava vicino al mercato di Santiago: era una zona di bar e prostitute. Quel giorno, mentre stavamo rientrando da Renté successe un fatto: sulla lancia c´erano stati dei problemi con un ragazzo che si chiamava Iván Losada, il preferito del prete, che lo coccolava sempre, e appena arrivammo alla scuola e rimanemmo da soli, cominciammo a fare a botte. Lui ebbe la peggio, perché ne uscì con un occhio pesto. Io sapevo che questo mi avrebbe procurato un sacco di guai. Quando arrivavamo, la sera, c´era la benedizione, come la chiamano, una cerimonia religiosa, e noi andavamo alla cappella della sacrestia. Ricordo che nel bel mezzo della cerimonia, tutta solenne, si apre la porta della sacrestia e mi chiama il prete. Salgo, mi porta in corridoio e mi chiede che cosa era successo con Iván. E quando io comincio a spiegare, mi rifila un ceffone che mi lascia praticamente stordito, e appena mi rigiro me ne dà un altro. Mi lasciò completamente stordito: era una vendetta crudele, inumana, barbara. Per me quella fu un´umiliazione grandissima, dolorosa. In seguito, in un´altra occasione - non ricordo se quello stesso anno - un giorno stavamo tutti in fila e lui mi colpì di nuovo, mi diede uno scappellotto. Allora io decisi che non avrei tollerato un´altra volta una cosa del genere. Quel giorno dovevamo giocare a baseball e stavamo in fila: quello che era davanti nella fila sceglieva la posizione migliore. Io stavo discutendo con qualcun altro per avere il primo posto nella fila, e in quel momento arriva il prete e mi dà uno scappellotto. Io allora mi girai, gli tirai in testa il mio pezzo di pane e cominciai a fare a botte con lui a morsi e pugni. Probabilmente non gli feci alcun danno, al prete, ma quello fu un fatto storico nella scuola, che qualcuno osasse fare una cosa del genere. Durante le vacanze, a casa nostra, facevano venire un contabile perché ci insegnasse a fare i conti; era molto spiacevole che nel periodo in cui potevamo giocare e divertirci ci mettessero a studiare. Noi ci difendevamo: avevamo messo le mani sul libro delle risposte della scuola, e quando ci davano da fare le operazioni copiavamo e finivamo in fretta, così potevamo andare a giocare. Ricordo che quell´anno nostro padre si lamentava con chiunque veniva, diceva che gli avevano detto che i suoi figli erano i tre peggiori banditi che mai ci fossero stati alla scuola. Era un´informazione ingiusta, ma a casa ci avevano creduto, e quindi avevano preso la decisione che non avremmo più studiato. Fu un momento decisivo della mia vita… Credo che fossi profondamente convinto di aver ragione sulla faccenda della scuola, e che erano stati ingiusti con me, e che la punizione di non farmi studiare… Si presuppone che a quell´età un ragazzino non sia tanto entusiasta di studiare. Avevo la sensazione che mi stessero danneggiando, danneggiando ingiustamente. Quindi, quando arrivò il sette gennaio, che era la data in cui si tornava a scuola, Ramón fu lasciato a casa, e lui era contento, perché gli piaceva la meccanica, i camion e quelle cose là, ed era felicissimo di non andare più a scuola. Raúl fu mandato in un collegio militare, affidato a un mastro civico-rurale - un sergente - con cui poi fece anche un ottimo lavoro. E a me volevano lasciarmi a casa. Ricordo che allora andai da mia madre, le spiegai che volevo continuare a studiare, che non era giusto che non mi facessero studiare. La mia era una casa di legno, grande, a due piani, su palafitte, perché era una casa un po´ in stile spagnolo; il bestiame stava di sotto, il locale per la mungitura stava sotto la casa. Allora chiamai mia madre e le dissi che volevo continuare a studiare, e che se non mi rimandavano a scuola avrei dato fuoco alla casa; la minacciai di dare fuoco alla casa se non mi mandavano a scuola. Di fronte a questo, di fronte al mio atteggiamento, decisero di rimandarmi a scuola. Mia madre la sentivo sempre protestare per due cose: una era la politica, perché costava un mucchio di soldi, una vagonata di denaro, perché mia madre era una persona più parsimoniosa, più attenta alle spese di mio padre, ed era molto attenta al denaro; l´altra cosa erano i politici, a cui non risparmiava critiche. E ce l´aveva anche con quei giornalisti che si presentavano a casa mia a chiedere soldi per un motivo o per un altro. Una vagonata di soldi. La faceva soffrire molto che con quello che lavoravano lei, mio padre e tutti laggiù, se ne uscisse tutto quel denaro per la politica e i giornalisti. Io mi feci una pessima opinione di queste cose, perché sentivo sempre mia madre che protestava. Se non prendevo il massimo dei voti, che non ero nelle condizioni di prendere, né per volontà né per preparazione, mi negavano i venti centesimi del cinema. E dovetti prendere provvedimenti per difendere i miei interessi. Mi dissi: bene, che succede se perdo il libretto con i voti? E un giorno dissi a scuola che avevo perso il libretto coi voti, e loro me ne diedero uno nuovo. Da quel momento in poi, scrivevo io i voti sul libretto vecchio, ed era questo il libretto che portavo a casa, con tutti voti eccellenti. Avevo due libretti: uno era quello su cui mi scrivevano i voti veri, a scuola, lo firmavo io e lo riportavo a scuola, e l´altro, quello che portavo a casa per farlo firmare ai miei, era quello che compilavo io. Quando finì la quinta elementare, non mi ero ancora preparato una storia, non avevo pensato a quello che avrei raccontato quando avrebbero visto che non avevo preso il massimo dei voti. E allora me ne sto lì che aspetto, molto tranquillamente, fino a che dicono: «Quinta elementare, primo premio: Enrique Peralta…». Allora comincio a fare la faccia sbalordita, come se fossi sorpreso. Poi cominciano a leggere i premi per tutte le materie, e a me non arriva assolutamente nulla. E ogni volta facevo la faccia sempre più sbalordita. E a quel punto dico: "Ah! Dannazione", ricordo che gli dissi, "ho capito che cosa è successo: dato che sono entrato molto tardi, a dicembre, mi mancano tre mesi, e quindi il punteggio totale è più basso di quello degli altri, ecco perché non posso avere i premi". Quando arrivò settembre mi ammalai, ebbi un problema all´appendice. Mi portarono alla Colonia Española e mi operarono: rimasi là tre mesi, perché poi ebbi qualche problema con la cicatrizzazione. Mi ricordo che in quel periodo, in cui stavo praticamente solo, recluso in quell´ospedale, feci amicizia con tutti i malati dell´ospedale. Lo racconto perché credo che dimostri una certa predisposizione che avevo per le relazioni umane, una vena da uomo politico. Quando non leggevo i fumetti passavo il tempo andando a far visita ai malati. Feci amicizia con tutti, tranne che con quelli del reparto malattie infettive. A quel tempo, qualcuno credeva che avessi la vocazione per la medicina, perché mi divertivo con le lucertole e una lametta Gillette; ero rimasto piuttosto colpito dalle operazioni chirurgiche, di cui ero stato vittima; mi avevano operato senza preoccuparsi della profilassi, e fu per questo che la cicatrice si riaprì e dovetti stare tre mesi all´ospedale. Per questo mi dedicavo a "operare" le lucertole; lucertole che generalmente morivano tutte, come era naturale. Tornavo da scuola dopo aver passato molte ore in classe, quando qualsiasi ragazzino vorrebbe tornare a casa e mettersi a non fare niente, sentire la radio, andare in giro; invece mi chiudevano in una stanza e mi tenevano lì ore e ore, pretendendo che studiassi. E io quello che facevo era andare in giro a passeggiare per ore e ore, e non studiavo nulla. Come passavo il tempo? La mia immaginazione volava ai problemi della storia, mi appassionavano molto le battaglie che trovavo nei primi libri di storia che avevo letto. Impegnavo sempre la mia fantasia a immaginare battaglie. Era con un addestramento militare che passavo le ore in cui ero costretto a stare lì. Mi mettevo a giocare: prendevo una serie di pezzi di carta e di biglie e li mettevo sopra un banco - pensa le sciocchezze che uno fa - e mettevo un ostacolo: quanti riuscivano a passare e quanti no? E così stabilivo quante erano state le perdite. Mi inventavo un gioco di guerra e ci passavo ore e ore. Immaginavo ostacoli, schieravo eserciti uno di fronte all´altro e impiegavo il tempo così. Un giorno però mi stancai di quella casa: mi avevano maltrattato e un giorno affrontai a brutto muso la padrona di casa, le dissi tutto quello che pensavo su come venivo trattato, li mandai al diavolo e quella sera stessa tornai a dormire nella scuola. Per la seconda volta - o la terza, la quarta, la quinta, non lo so - avevo dovuto prendere la decisione di passare all´azione per uscire da una situazione in cui ero stato messo dalle circostanze. Lo feci per entrare come interno al collegio La Salle, lo feci nel collegio, lo feci a casa mia per poter continuare a studiare, e lo feci in quella casa per essere mandato di nuovo a dormire in collegio. Da quel momento in poi mi gestii da solo, le decisioni su tutti i problemi della mia vita le presi da solo, senza farmi consigliare da nessuno. Andavamo anche a fare delle gite a bordo di una corriera della scuola, arrivavamo fino al Cobre, e mi prendeva il ghiribizzo di salire fino su in cima. Il pullman doveva restare lì due o tre ore ad aspettare me. Andavamo dalle parti del Caney e anche lì mi mettevo a scalare la montagna più alta e poi tornavo giù. A volte pioveva e i fiumi erano ingrossati, ed era quella la cosa che più mi piaceva: fare escursioni lungo i fiumi, attraversarli, camminare e poi tornare indietro. In genere la corriera stava sempre ad aspettare me. Arrivavo sempre due o tre ore dopo. Il sacerdote che badava a noi, il nostro sorvegliante, si chiamava padre García, non mi rimproverò mai per questi ritardi. curioso, perché nonostante fosse una mancanza di disciplina e causa di notevole disagio, non mi rimproverava mai. Di tutto il gruppo, l´appassionato, l´alpinista per eccellenza ero io. Ed era una tentazione, ogni volta che vedevo una montagna, di scalarla. Non mi immaginavo certo che in seguito le montagne avrebbero giocato un ruolo importantissimo nella mia vita! Avevo dodici o tredici anni. L´anno dopo cominciai l´ultimo anno delle medie. Per via del nuovo ambiente, mi impegnai nello studio e quell´anno fui uno dei primi della classe. Feci l´esame di terza media ed entrai al primo anno del liceo. Poco tempo dopo decisi, autonomamente, di cambiare scuola, perché non mi trovavo bene in quell´ambiente, che era già da universitari, e decisi di andare in un´altra scuola, sempre dei gesuiti, il collegio Dolores. Delle scuole dei gesuiti posso fare una critica delle parti buone e cattive, dei lati positivi e negativi. Una cosa buona era la disciplina, il fatto che ti abituavano alla disciplina, a studiare. Devo dire che non sono contrario a quel tipo di vita, vagamente spartana, che era l´insegnamento che si riceveva dai gesuiti come interno, perché è una vita dura, disciplinata, che ti abitua a stare separato dalla famiglia, a fare a meno di molte cose. E in generale ricordo che i gesuiti tendevano a formare persone di carattere. Una volta fecero un concorso di poesia, c´era una stazione radio e partecipavano tutti gli alunni, e i genitori votavano la poesia migliore. Le migliori non erano le mie; però avevo sviluppato un grande rapporto di amicizia con tutti i ragazzi, e credo che anche qui tornava a farsi vedere la mia vena politica. Quindi, io scrivevo le mie poesie e praticamente tutti i ragazzi chiedevano ai loro genitori di votare per me, e il risultato era che arrivavano lettere come questa - c´era un ragazzo che si chiamava Elpidio Estrada, che scriveva versi molto belli, molto migliori dei miei - ma il risultato era il seguente: «La poesia di Elpidio dedicata alle madri è bellissima, emozionante; il nostro voto, naturalmente, è per Fidel…». FIDEL CASTRO