Corriere della Sera 23 febbraio 2008, Christopher Hitchens, 23 febbraio 2008
La stampa peggiore. Corriere della Sera 23 febbraio 2008. Vi siete mai chiesti chi è il più grande nemico della stampa libera? Viene subito in mente qualche avversario assai in vista, come la censura di Stato, il padrone monopolistico, il committente che pretende un articolo favorevole, o quanto meno l’assenza di critiche, e via dicendo
La stampa peggiore. Corriere della Sera 23 febbraio 2008. Vi siete mai chiesti chi è il più grande nemico della stampa libera? Viene subito in mente qualche avversario assai in vista, come la censura di Stato, il padrone monopolistico, il committente che pretende un articolo favorevole, o quanto meno l’assenza di critiche, e via dicendo. Tuttavia, il nemico più subdolo è il giornalista e redattore pusillanime, al quale non occorre nemmeno impartire ordini poiché ha già interiorizzato l’esigenza di compiacere, o perlomeno di non recare offesa, alla peggior tirannia di tutte, ovvero l’idea di un’opinione pubblica da tutelare. Prendiamo per esempio il necrologio di Earl Butz, un tempo importante politico repubblicano, ministro per l’Agricoltura sotto i presidenti Richard Nixon e Gerald Ford, fino al giorno in cui fu costretto a dare le dimissioni per un commento volgare durante le udienze di John Dean, che con la sua soffiata aveva scoperto le carte del Watergate. Nel necrologio apparso sul New York Times, di Butz («deceduto nel sonno mentre era in visita a casa del figlio William», commento spietato sulle virtù soporifiche del rampollo maschio), si rammenta che «aveva descritto i neri come "uomini di colore" che volevano tre cose: sesso, scarpe comode e una stanza da bagno riscaldata ». Ebbene, non esiste un solo adulto che abbia vissuto gli eventi del 1976 e non ricordi le esatte parole di Butz, secondo il quale gli americani di origine africana volevano soltanto «una gnocca bella stretta, scarpe senza lacci e un posticino al caldo per cacare». Se le sue parole becere e razziste non fossero state riportate fedelmente nel 1976, Butz avrebbe conservato tranquillamente la poltrona. Eppure, tutti i lettori sotto i cinquant’anni avranno letto quella frase cruciale senza riuscire a capire minimamente i motivi della polemica che portò alle sue dimissioni. A cosa serve un giornale che si prefigge di documentare gli avvenimenti quando decide che il pubblico va tutelato da quegli stessi avvenimenti? Mi sono posto questa domanda in seguito ai recenti sviluppi di un caso clamoroso. In Danimarca, la settimana scorsa, le autorità hanno arrestato tre uomini sospettati di preparare un attentato contro un danese di 72 anni, Kurt Westergaard. Questo signore è un illustratore e risiede in una tranquilla cittadina universitaria. Qualche tempo fa, con altri colleghi, che vivono tutti in una società libera, ha disegnato alcune caricature del cosiddetto «profeta» Maometto. Scopo della satira era proprio voler infrangere il tabù che la società occidentale si è assunta volontariamente, e cioè di bandire ogni critica all’Islam e alle sue icone. La satira ha riscosso un grande successo, scatenando però la reazione isterica degli islamici, che hanno sbandierato in pubblico proprio quelle immagini, che la loro fede vieta di rappresentare per timore che vengano fatte oggetto di idolatria. Intimidazioni e violenze si sono susseguite a catena sulla scia di questa insulsa polemica. Ad ogni modo, la settimana scorsa, quasi tutti i quotidiani danesi hanno preso la decisione unanime di ristampare le vignette blasfeme. Se vivete nei Paesi dove i miei articoli vengono pubblicati, vi chiederete il perché di tanto clamore. Ma se vivete in Gran Bretagna o negli Usa, non vi chiederete un bel nulla, perché la vostra stampa ha deciso per voi – come per Butz – che è meglio risparmiarvi questa sgradevole verità. Sarà questo il vero motivo? Viviamo nell’era della rappresentazione e dell’immagine: come può accadere che il gesto della stampa danese, basato interamente su una storia visiva, sia stato volutamente tagliato fuori? Ho la sensazione che la scelta di proteggervi da quelle immagini stavolta sia stata motivata da qualcosa di infinitamente più volgare, come la paura. La vigliaccheria della cultura popolare americana si è palesata sin dall’inizio di questa storia. I soli quotidiani a ribellarsi contro la corsa all’autocensura, o alla capitolazione per malcelato terrore, sono stati il Weekly Standard, conservatore, e il Free Inquiry, ateo – due organi di stampa con una tiratura complessiva assai limitata (per i quali ho scritto anch’io in passato). La catena di librerie Borders ha subito fatto sparire il Free Inquiry dai suoi scaffali, con la conseguenza assai trascurabile che ho giurato di non fare mai più una presentazione né di acquistare mai più un libro in nessuna delle sue filiali. (A proposito, vi incoraggio a seguire il mio esempio). Sono certo, tuttavia, che la maggioranza degli americani non si è nemmeno accorta di un simile tradimento, perché la stampa nazionale si è vergognata di riferire una sconfitta alla quale essa stessa aveva attivamente preso parte. In Canada, solo due giornali minori hanno stampato le vignette. Il Western Standard, oggi disponibile unicamente online, e il Jewish Free Press, prima che fossero entrambi trascinati davanti a una specie di tribunale imbelle, di sapore popolar burocratico, chiamato Commissione dei diritti umani dello Stato dell’Alberta. Se pensate che questo è un nome buffo, guardate quello del querelante: il Consiglio supremo islamico del Canada. Chissà quanto a lungo si sarebbe trascinato questo stupido caso di «incitamento all’odio», con relativo sperpero di tempo e denaro pubblico, sta di fatto che la settimana scorsa i supremi islamici hanno deciso di ritirare la querela. «Vedo che per la maggior parte dei canadesi si tratta di una questione di libertà di parola», ha detto Syed Soharwardy del caso da lui scatenato, aggiungendo poi che «quel principio è sacrosanto nella nostra società». Soharwardy ha proseguito, forse un tantino compiaciuto: «Sono convinto che la società canadese è abbastanza matura per non assorbire il messaggio lanciato dalle vignette. Infatti, solo una minima parte della stampa canadese le ha pubblicate». Se privata di quel «non» e dell’ idea sinistra che occorra chiedere il consenso di Soharwardy, la prima frase sarebbe stata una dichiarazione perfettamente legittima e anche un po’ banale. Ma con l’aggiunta del suo commento sulla «minima parte» della stampa canadese e la conseguente approvazione della reticenza generale, non possiamo far altro che concludere che Soharwardy è rimasto soddisfatto tutto sommato dal grado di timore reverenziale che ha potuto constatare a nord del confine statunitense. Ho voluto menzionare questo esempio per sottolineare come il timore reverenziale oggi presente a sud di quel confine sia di gran lunga superiore a quanto qualsiasi censore, e persino autocensore, potrebbe mai augurarsi. Christopher Hitchens