Corriere della Sera 23 febbraio 2008, Massimo Gaggi, 23 febbraio 2008
Il laboratorio dell’energia. Corriere della Sera 23 febbraio 2008. «Questo è un cristallo di carbonato di calcio, un minerale relativamente fragile
Il laboratorio dell’energia. Corriere della Sera 23 febbraio 2008. «Questo è un cristallo di carbonato di calcio, un minerale relativamente fragile. Vede? Se voglio lo posso rompere. Questa, invece, è la conchiglia di un abalone. Praticamente indistruttibile. Eppure è fatta al 98 per cento di calcio carbonato. La differenza? Le proteine che sono in quel 2 per cento rimanente. Proteine come quelle utilizzate dai nostri laboratori per realizzare pannelli solari molto diversi da quelli, costosissimi, in silicio. Cellule fatte di polimeri, capaci di trasformare la luce in calore con un processo simile alla fotosintesi del mondo vegetale». Elettronica organica, idrati di metano (il «ghiaccio che brucia»), biocombustibili potenziati grazie all’ingegneria genetica, una nuova generazione di accumulatori elettrici, sistemi automatici per la ricerca petrolifera in mare e a grandi profondità, gestione dell’anidride carbonica prodotta nei processi di liquefazione del carbone, geotermia profonda: il direttore dell’Iniziativa Energetica del Mit di Boston, Ernest Moniz, mi guida nella «galleria delle meraviglie» della più prestigiosa accademia scientifica del mondo. Studioso (è un celebre fisico), manager-amministratore (sa come mettere insieme team di ricerca e come collegare accademia, industria e governo, visto che è stato viceministro dell’Energia di Bill Clinton), Moniz è anche un po’ «pifferaio magico»: per finanziare i progetti bisogna saper affascinare filantropi e potenziali investitori. Ma è da qui che bisogna partire per capire se le fonti alternative e il risparmio in futuro, pur crescendo, rimarranno marginali rispetto all’enorme fame di energia del Pianeta o se, invece, si sta davvero innescando un effetto-moltiplicatore, come quello che ha alimentato la rivoluzione dell’information technology. I governi e le multinazionali dell’auto hanno fallito: tre decenni di progetti suggestivi hanno prodotto risultati molto limitati. Ce la possono fare i cervelli delle grandi università e gli innovatori della Silicon Valley che stanno spostando i loro interessi dalle tecnologie informatiche a quelle energetiche? Moniz invita alla prudenza: meglio non illudersi che, dall’oggi al domani, possa nascere una Google del vento o del solare: nell’informatica conta soprattutto l’idea, mentre gli investimenti possono essere relativamente limitati. Nell’energia, invece, «abbiamo a che fare con business che valgono migliaia di miliardi di dol-lari, commodity il cui spostamento richiede infrastrutture imponenti». Insomma, servono grandi imprese e grandi capitali. Ma il metodo collaborativo è quello giusto: progetti che nascono dallo sforzo congiunto di aziende innovative e ricercatori. Il ruolo dei fondi e delle agenzie scientifiche federali rimane, ma è frenato dai vincoli burocratici e amministrativi. Il Massachusetts Institute of Technology, da questo punto di vista, occupa una posizione strategica non solo per il suo prestigio e le capacità dei suoi ricercatori, ma anche perché – nota Moniz – è stato il primo, insieme all’Università californiana di Stanford, a credere al binomio industria-università e a sviluppare importanti partnership con le imprese. E oggi il Mit – un modello molto ammirato che Paesi come l’Italia hanno cercato di imitare senza troppo successo – ha numerosi partner e tra questi i gruppi europei sono addirittura più numerosi di quelli americani. Il Mit lavora con la Chevron alla ricerca in acque profonde, mentre con la Ford sviluppa motori diesel avanzati e una nuova generazione di batterie per l’auto elettrica, ma le sfide più ambiziose sono quelle che sta affrontando con la BP nell’area del carbone «pulito» e con gli italiani dell’Eni proprio nel solare: i processi che vanno oltre il silicio sono un’area nella quale i laboratori di Novara del gruppo hanno già fatto un grosso lavoro. Con altri partner, soprattutto francesi e spagnoli, il Mit conduce, poi, ricerche sulle altre energie rinnovabili e sul metano «intrappolato» nel terreno delle tundre. «Recuperarlo – spiega Moniz – è un rompicapo, ma qui la sfida, oltre che affascinante, è terribile: il rischio è che, con lo scioglimento del permafrost (la patina ghiacciata che ricopre il terreno delle zone sub-artiche) provocato dal riscaldamento dell’atmosfera, quel metano finisca direttamente nell’aria con un ulteriore, drammatico impatto sul global warming ». Altro settore promettente è quello della geotermia, che in Italia siamo abituati a considerare collegata a fenomeni geologici come i soffioni di Larderello. Gli studi condotti del Mit (stavolta con finanziamenti federali) hanno dimostrato che con la geotermia profonda è possibile produrre elettricità a costi comparabili con quelli delle centrali tradizionali. Il Mit, che in quest’area ha un accordo di collaborazione con un altro gruppo italiano, l’Enel, ha selezionato sei siti negli Usa dai quali, scavando pozzi molto profondi, sarà possibile estrarre acqua calda e vapore ad alta pressione capaci di far girare le turbine di una centrale. Sulla base di questi studi e con i finanziamenti di Khosla Venture e Kleiner Perkins, le due più celebri firme del venture capital della Silicon Valley, la Alta Rock Energy, società elettrica di Seattle, ha iniziato a progettare impianti che entro dieci anni dovrebbero fornire una potenza elettrica di 10 mila megawatt. Energia sufficiente ad alimentare 10 milioni di abitazioni. Nel campo delle energie rinnovabili si sono già succeduti troppi cicli di illusioni e delusioni. E anche stavolta l’entusiasmo generato dall’attivismo della Silicon Valley è probabilmente eccessivo. Per la prima volta, però, sono state abbattute barriere tecnologiche che sembravano insuperabili. Dopo aver ristagnato per anni, gli investimenti mondiali nelle energie rinnovabili sono passati dai 52 miliardi di dollari del 2006 ai 66 del 2007. E la crescita continuerà anche quest’anno. E’ presto per dire che abbiamo voltato pagina, ma in California – che come il resto degli Usa vive una fase di ristagno dell’economia con i posti di lavoro che non crescono – per la prima volta si sente parlare di scarsità di «colletti verdi»: non c’è abbastanza personale capace di istallare pannelli solari. Massimo Gaggi