Il Manifesto 22 febbraio 2008, Tommaso Di Francesco, 22 febbraio 2008
La rabbia esplode e infiamma Belgrado. Il Manifesto 22 febbraio 2008. Centinaia e centinaia di migliaia, molti di più di 500mila, i serbi hanno voluto rispondere così alla proclamazione unilaterale di indipendenza del Kosovo, che mezzo mondo sta riconoscendo, nascondendo che si tratta di una rottura del diritto internazionale
La rabbia esplode e infiamma Belgrado. Il Manifesto 22 febbraio 2008. Centinaia e centinaia di migliaia, molti di più di 500mila, i serbi hanno voluto rispondere così alla proclamazione unilaterale di indipendenza del Kosovo, che mezzo mondo sta riconoscendo, nascondendo che si tratta di una rottura del diritto internazionale. La grande manifestazione era prevista per le 17, ma già all’una arrivavano dalla periferia e dalle altre città della Serbia i primi cortei. Lo chiameranno l’orgoglio del nazionalismo serbo. Ma è una espressione assai inadatta. Qui sulla grande spianata di Piazza della Repubblica, la piazza storica della capitale serba ed ex jugoslava, tra il palazzo del Parlamento e quello della presidenza, è andato in onda un fenomeno politico e insieme sociale nuovissimo, sicuramente borderline. Perché in piazza ieri c’erano i giovani. Non che mancassero anche i vecchi arnesi dell’estremismo ultranazionalista e le pericolose tifoserie organizzate del Partizan e della Stella rossa. Ieri però si è verificato un fatto nuovo, proprio sulla stessa piazza dove abbiamo visto i comizi più guerrafondai della fine degli anni ’80, non lontano dalla sede della tv colpita dai giorni del terrore dei raid della Nato nel 1999, e nello stesso luogo dove nell’ottobre 2000, quasi otto anni fa, il popolo assaltò il palazzo del Parlamento saccheggiando le schede elettorali per protesta contro l’annuncio dell’ennesima vittoria di Slobodan Milosevic. Qui ieri centinaia di migliaia di adolescenti, al grido di «il Kosovo è Serbia» «America assassina, America fascista» e «vergogna Europa», hano reso evidente una rabbia pulita ma non per questo meno radicale e incontenibile. Un urlo straziato, un lamento. Ha scelto davvero il giorno più adatto il governo italiano per riconoscere, ieri, l’indipendenza unilaterale del Kosovo. L’ambasciata italiana era schermata, senza insegne, nascosta tra saracinesche di metallo e file di poliziotti. Come le altre ambasciate dei paesi schierati con la leadership kosovaro-albanese di Pristina, a partire da quella degli Stati uniti assaltata da decine persone che si sono scontrate duramente con la polizia, come assaltata risulta l’ambasciata della Croazia e pare una sede della banca italiana Unicredit. L’ambasciata Usa è stata assalita da qualche decina di manifestanti, strappata, incendiata e sostituita con quella russa la bandiera sulla facciata, qualcuno è riuscito a entrare e ha dato fuoco ad alcune suppellettili. In apparenza poca cosa ma rumorosa, e mentre a New York l’ambasciatore americano all’Onu Khalilzad chiedeva ferma condanna, a Belgrado il portavoce dell’ambasciata ringraziava per i lievi danni la polizia serba, che ha represso con decisione ogni intemperanza (decine i feriti). Un paio d’ore e arriva lo choc: nei locali dell’ambasciata assalita c’è un corpo carbonizzato. Lo dicono radio e tv private, nessuna conferma ufficiale. Comunque è la verogna che si prova, perché noi continuiamo a raccontare a questo popolo che «l’Italia è amica». Lo ripete di continuo Massimo D’Alema che, leader dell’Alleanza Atlantica, non esitò nel 1999 a colpire il paese con 78 giorni di bombardamenti e adesso riconosce la nascita di uno statarello che è il 15% della Serbia e il luogo della sua nascita storica, culturale e religiosa. Se l’Italia fosse stata nemica che avrebbe fatto? Il palco immenso sulla spianata, così grande da coprire il Parlamento gridava «il Kosovo è Serbia», ai lati con i colori bianco, rosso e blu della bandiera nazionale delle grandi fasce in movimento in tutte le lingue del mondo che ripetevano lo stesso slogan: la musica turbo sconfinava nell’arabesco dei sassofoni zingari insieme ai canti liturgici e a quelli nazionali. E che «il Kosovo è Serbia» ieri stava dappertutto. Sui tram, sulle vetrine di tutti i negozi, anche sui McDonald’s, proprio quello assaltato alcuni giorni fa. E poi una marea di cortei autonomi che arrivavano dalla periferia e dalle altre città serbe. Ieri le scuole erano chiuse, gratis pullman e treni. La protesta era stata indetta il 18, il giorno dopo l’autoproclamazione di Pristina, unitariamente dal presidente filo-europeo Boris Tadic, dal premier Vojslav Kostunica nazionalista moderato e dal leader ultranazionalista Tomislav Nikolic. Ieri Tadic non c’era, è corso a Bucarest ad un incontro con il governo rumeno che non ha riconosciuto l’indipendenza. Ma il suo Partito democratico non ha ritirato il sostegno alla manifestazione, si mostra però più preoccupato degli altri e insiste che «solo la protesta pacifica convincerà il mondo». Per ora stanno insieme, per rafforzare l’immagine del paese e per incanalare una protesta diffusa ormai ovunque in Serbia e che può diventare violenta all’improvviso. Come è accaduto per i posti di «frontiera» che dividono Kosovska Mitrovica dal resto della Serbia, lì dove anche ieri la rabbia dei giovani serbi ha fronteggiato i contingenti della Nato. Quando ha preso la parola, il premier Vojslav Kostunica - quello che i media internazionali definiscono come «lo sconfitto» della crisi del Kosovo - la piazza è letterlamente venuta giù. Kostunica, oltre a ricordare che stavolta i serbi «non sono soli, c’è la Russia con noi e noi non dimenticheremo mai la solidarietà di Mosca» ha accusato: «L’Occidente ci vuole umiliare anche se noi abbiamo rispettato tutti gli obblighi internazionali. Con noi serbi - ha ammonito - si può agire da amici, mai con la forza, la nostra storia ce lo ricorda». Ha concluso denunciando lo «statarello inventato del Kosovo»: «Il popolo ci chiede adesso qual è la nostra parola d’ordine: bene, finché saremo vivi, finché diremo no agli ultimatum il Kosovo è Serbia e noi saremo liberi». E arrivavano ancora cortei di giovani e giovanissimi dappertutto. Erano giovanissimi anche quelli venuti dai centri dei profughi, e quelli arrivati dalla Repubblica dei Serbi di Bosnia - al comizio ha parlato il premier serbo-bosniaco Milorad Dodik pronto al referendum sull’indipendenza - con i cartelli che chiedevano all’Europa di vergognarsi. Bandiere Usa sempre accompagnate dalla svastica, e al grido ritmato «yankee go home, yankee go home», «il Kosovo è Serbiaaa...». E la piazza è esplosa quando hanno portato la loro solidarietà diretta il grande giocatore di basket Dejan Bodiroga e il campione internazionale di tennis Novak Jokovik, di origini kosovare. Lo ripetiamo, non è il nazionalismo estremo, la chiamano «legittima difesa» sostenuta certo da una leadership politica, quella che ha cacciato Milosevic e non ha partecipato alle guerre etniche, ma da un intero popolo. Al quale promettono dall’Occidente a parole il miraggio moderno della sovranazionalità liberista, ma in realtà lo ricacciano nel limbo della difesa nazionalista. E la violenza sta nelle cose e nell’aria: adesso infatti che accadrà in Kosovo? I serbi che considerano quella terra come la loro saranno costretti ad andarsene di fronte alla missione Eulex dell’Unione europea che va ad imporre l’indipendenza etnica albanese, oppure resisteranno? E come, visto che hanno dichiarato che quella missione non è «benvenuta»? I valichi sono stati incendiati e significativamente il ministro serbo per il Kosovo Slobodan Samardzic, ieri sul grande palco anche lui, non solo non ha condannato l’iniziativa, l’ha giustificata. «Non è stato delicato» ha detto «ma è stata una reazione legittima, lì è Serbia». E da ieri i soldati americani del contingente francese Kfor come se niente fosse stanno ricostruendo le barriere. Ieri tutti i giornali serbi, da Politica a Danars a Blic, avevano forte la dichiarazione del ministro degli esteri Vuk Jeremic, considerato come il più filo-occidentale tra i ministri serbi, che ha rilasciato davanti al Parlamento europeo di Strasburgo con esplicito riferimento alla posizione italiana di D’Alema questa dichiarazione: «La Serbia non accetterà mai lo scambio tra prospettiva europea e sovranità sul Kosovo. E’ una proposta indecente», e poi ha citato Tacito: «Non tutto è in vendita. Non si può barattare la storia, la democrazia, l’integrità internazionale. Hanno solo creato desolazione e l’hanno chiamata pace». Ha concluso il grande raduno dal palco uno sprezzante intervento del regista Emir Kusturica: «I nostri valori» ha detto «non sono in vendita e soprattutto non apparteniamo alla mitologia di Hollywood, noi abbiamo il mito di Ivo Andric, di Milos Crnjavski, noi abbiamo il mito della bellezza dei monasteri ortodossi del Kosovo, perché lì siamo nati. Tutti i popoli hanno un loro archetipo, perché a noi deve essere negato. Ora dobbiamo inventare un nuovo calendario. Il prossimo 17 febbraio sarà quello della liberazione del Kosovo». Sfila, ancora mentre scriviamo sotto le nostre finestre, un mare di ragazzi, di ragazzini, tutti con le bandiere nazionali, ma anche con quelle spagnole, convinti e incazzati contro un’Europa meschina. Dal palco ha parlato il portavoce degli studenti dell’Università di Belgrado. C’è una nuova generazione che purtroppo si trova fra le mani una mina che ancora una volta noi abbiamo innescato. Dopo la manifestazione, tutti in corteo con le candele accese, per la liturgia solenne indetta dal patriarcato nella basilica ortodossa di San Sava, tra canti e incensi a rivendicare l’appartenenza alla chiesa di una terra che ora dichiara d’essere albanese ed è ormai maggioritariamente musulmana. Anche la chiesa ortodossa sente che la situazione può precipitare. Resterà asserragliata nei ministeri in Kosovo o migrerà con i fedeli? Il vescovo del Kosovo insiste perché si mobiliti l’esercito «per difendere la vita dei serbi kosovari». Lo stato maggiore dice per ora di no. E c’è al posto di comando, date le gravi condizioni del patriarca Pavle, il vescovo Anfilochje, che per tre anni è stato in Kosovo e ha visto lo scempio dei monasteri distrutti. Nema problema, niente accadrà. Tutto può succedere. Tommaso Di Francesco