Il Messaggero 22 febbraio 2008, Danilo Maestosi, 22 febbraio 2008
Renoir. Il Messaggero 22 febbraio 2008. CON Pierre August Renoir (1841-1919), in cartellone dall’8 marzo al 29 giugno, il Vittoriano prosegue la sua sistematica ricognizione dei grandi maestri che tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento hanno rivoluzionato la scena della pittura
Renoir. Il Messaggero 22 febbraio 2008. CON Pierre August Renoir (1841-1919), in cartellone dall’8 marzo al 29 giugno, il Vittoriano prosegue la sua sistematica ricognizione dei grandi maestri che tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento hanno rivoluzionato la scena della pittura. Come era già avvenuto con Chagall lo fa tornando ad esplorare un autore cui aveva già reso omaggio dieci anni fa, cercando di farsi perdonare lacune e passi falsi di una rivisitazione che scontava le incertezze d’esordio nella gestione del monumento, appena risorto da un lungo letargo. Obiettivo centrato, almeno sulla carta, da questa seconda mostra. Per il numero e la qualità delle opere che stavolta Alessandro Nicosia, infaticabile regista del Vittoriano è riuscito ad assicurarsi ed approdano a Roma per la prima volta: oltre 130 tra oli, acquarelli, incisioni, disegni e sculture, provenienti da musei prestigiosi di tutto il mondo, come il Petit Palais e il Pompidou di Parigi, la National Gallery di Londra, l’Ashmolean di Oxford, l’Ermitage di S.Pietroburgo e un’altra quindicina di centri Oltreoceano, dagli Usa, al Canada, al Giappone. Ma ancor più per il taglio, anch’esso inedito, che la curatrice, l’inglese Kathlen Adler, ha impresso alla rassegna e battezzato con il titolo Renoir. La maturità tra classico e moderno, rinunciando a celebrare l’inflazionata e relativamente breve avventura con l’Impressionismo, che occupa circa un decennio, per zoommare sulla svolta espressiva, quasi un ritorno all’ordine, che caratterizza l’ultimo quarantennio della sua carriera. Lo spartiacque è rappresentato dal suo primo viaggio in Italia: un Grand Tour concentrato in quattro mesi, dall’ottobre del 1881 alla metà gennaio dell’82, che lo porta a contatto con i capolavori del Rinascimento e dell’arte classica. Esperienza decisiva per molti artisti, ancora più pregnante per uno che sin da giovane, quando ancora lavorava come decoratore in una bottega di ceramiche e consumava le ore libere a girare per le sale del Louvre, si proclamava «figlio di madre natura e di padre museo». Renoir ci arriva a quarant’anni compiuti, trascinato da una voglia di cambiamento che lo divora. L’Impressionismo, si lamenta in una lettera, lo ha portato in un vicolo cieco: «Non so più disegnare». Nel movimento ha trovato molti amici e compagni di scoperte en plein air, da Monet a Cézanne, ma con il suo scetticismo da «operaio dell’arte», non vi ha mai aderito fino il fondo: partecipa a tre grandi mostre del gruppo poi comincia a smarcarsi ed a tornare ad esporre al Salon dove è più facile farsi conoscere al grande pubblico parigino, e dove sfonda finalmente la porta del successo, con un interno di gruppo La famiglia Charpentier, che pochi anni prima di morire avrà l’onore di vedere appeso tra i capolavori del Louvre. Sono arrivati anche i primi sostanziosi guadagni e Renoir li investe per pagarsi il soggiorno italiano. Visita Venezia, Padova, Firenze. Poi si ferma a Roma. A impressionarlo di più è una visita agli affreschi di Raffaello alla Farnesina: vi scopre un senso profetico della luce, ma soprattutto il fascino della semplicità con cui rende il mistero della bellezza. E’ quasi un culto per lui, la bellezza. La insegue da sempre, da quando ha cominciato a ritrarre quei nudi di donna, sensuali e carnosi, che sprizzano incontenibile vitalità. Un traguardo corposo e terreno, che sente in sintonia con lo spirito del mondo pagano, quegli dei che scendevano sulla terra a procacciarsi conquiste e amori fugaci. A Napoli scopre il fascino delle pitture pompeiane. Tecnica forse sommaria, annota, ma una capacità unica di raccontare con segni rapidi e concisi, senza lasciarsi distogliere dalle vibrazioni dello spettacolo naturale. L’ultima tappa a Palermo. All’Hotel delle Palme incontra Wagner, il musicista allora più in voga, con cui intreccia una sorta di curiosa sfida, chiedendogli di ritrarlo. Wagner gli concede solo mezz’ora di posa. Renoir vince la scommessa. Il compositore è perplesso: «Sembro un pastore protestante». Ma soddisfatto. Quel leggendario ritratto sarà una delle chicche che la rivisitazione del Vittoriano sgrana lungo il suo percorso. L’epicentro della mostra è nel salone del piano terra, dominato dai quadri delle Bagnanti, uno dei let motiv più forti della maturità. Figure in cui trasfonde, con segni più netti e scolpiti, accentuati da fondali meno contrastati, da colori che aggiungeranno ai corpi un candore sospeso di madreperla, il senso d’idealità di Paradiso riscoperto, che ha ritrovato ammirando dal vivo i tesori del mondo classico. Ma senza scivolare nell’enfasi del retrò: calarsi nella modernità a volte gli crea imbarazzo, detesta Baudelaire, non stima Victor Hugo, eppure non può fare a meno di rappresentarne il dinamismo con pennellate nervose che sfaldano i contorni, alla maniera dell’ultimo Tiziano o di Rubens, maestri cui in tarda età renderà omaggio. Già la vecchiaia. Sarà un vero calvario per lui l’ultimo ventennio, documentato in mostra anche da un prezioso campionario di foto. Immagini che prendono alla gola: il corpo scheletrico, le mani rattrappite dall’artrosi che deve farsi legare al pennello, le gambe infiacchite che lo costringono su una carrozzella. Ma è un tormento che non sembra intaccare la sua pittura: i colori restano vivacissimi, l’impianto delle scene mosso ed elegante. E fino all’ultimo le donne che ritrae, nude o abbigliate con abiti a sbuffo e cappellini alla moda, i volti paffuti quasi identici, ispirati dalla moglie e da altre due modelle favorite, continuano a innalzare inni alla vita. A ostentare felicità e ottimismo come quei bronzi, che scolpirà per una breve stagione, con l’aiuto di un assistente che uno dei suoi galleristi gli affianca. Danilo Maestosi