Avvenire 22 febbraio 2008, Adriano Dell’Asta, 22 febbraio 2008
Solzenicyn. Avvenire 22 febbraio 2008. Nell’ultimo numero della rivista ’La Nuova Europa’ (1, 2008), compare un interessante saggio di Ljudmila Saraskina, studiosa di letteratura, autrice di una monumentale biografia di Solzenicyn di imminente uscita in Russia
Solzenicyn. Avvenire 22 febbraio 2008. Nell’ultimo numero della rivista ’La Nuova Europa’ (1, 2008), compare un interessante saggio di Ljudmila Saraskina, studiosa di letteratura, autrice di una monumentale biografia di Solzenicyn di imminente uscita in Russia. Il saggio ricrea la storia del famoso appello Vivere senza menzogna, che lo scrittore russo volle fosse reso pubblico il 13 febbraio 1974, all’indomani del suo arresto e quindi poco prima di quella che divenne la sua espulsione, ma che poteva essere anche una condanna detentiva durissima (se non già la condanna a morte come qualcuno chiedeva). L’appello, disinteressandosi della sorte personale dell’autore, della sua libertà e della sua stessa vita, era l’invocazione a una lotta senza quartiere contro la menzogna: «che non domini con la mia collaborazione!… Ecco la nostra via: non sostenere in nessun caso consapevolmente la menzogna». Come mostra bene la Saraskina, non si trattava di un proclama politico, filosofico o religioso, ma dell’appello a «un riesame completo della propria vita e della propria coscienza», era un’invocazione all’inquietudine della coscienza. Per Solzenicyn, in effetti, il problema fondamentale di un regime totalitario come quello sovietico, prima ancora del terrore con il quale aveva fatto milioni di vittime, era quello della menzogna che aveva avvelenato l’anima dell’uomo e rischiava di farlo scomparire come specie umana, una menzogna onnipervasiva che aveva portato uno scrittore sovietico famoso, il premio Nobel Solochov, a dire: «Scriviamo come ci detta il cuore, ma il nostro cuore appartiene al partito». La storia di Solzenicyn e della sua fortuna letteraria mostrano del resto perfettamente questa centralità dello scontro tra la verità e la menzogna. Quando la rivista Novyj Mir pubblicò Una giornata di Ivan Denisovic, il numero andò subito a ruba, la gente lo cercava con ansia come un oggetto prezioso, quasi non capendo più niente per la paura di non riuscire a trovarlo; come ricordava Sergej Averincev, uno dei più grandi intellettuali russi del XX secolo: «Non dimenticherò mai un uomo un po’ strampalato, che non riusciva a dire il nome del Novyj Mir e chiedeva alla giornalaia: ’Ma sì, ma sì, quello dove c’è scritta tutta la verità!’. E lei capiva di che cosa stesse parlando il suo interlocutore ». Era un altro mondo che aveva fatto irruzione nell’Unione Sovietica del post-stalinismo. E di un altro mondo ancora furono le reazioni del mondo letterario ufficiale, che attaccò Solzenicyn prima ancora che lo facesse il potere, con una violenza verbale che autorizzò poi il potere stesso alla campagna che avrebbe portato all’espulsione dell’autore scomodo. Solzenicyn venne bollato come un «nemico di classe», un «malato psichico pericoloso», «pieno di veleno e di disprezzo». E si potrebbe proseguire ancora a lungo se non si dovesse ricordare che anche in Italia le reazioni di questo tipo furono la maggioranza e caratterizzarono anche scrittori di valore, che non agivano per timore, sudditanza politica, interesse o quant’altro; si pensi a chi definì Solzenicyn «un retore declamatore che non vale niente come scrittore», uno scrittore anonimo rispetto al quale «un corri- spondente di provincia scrive meglio»; ma si pensi anche a una parte consistente del mondo politico, non comunista o in qualche caso anche anticomunista, che guardava con fastidio il dissenso e gli scrittori del dissenso perché potevano disturbare il processo di quella che allora veniva chiamata la distensione. Fu realmente lo scontro di due mondi, che non erano definiti soltanto da una collocazione geografica o da un’appartenenza politica e neppure dalla legittima diversità di valutazione del valore di un’opera artistica; come accenna la Saraskina alla fine del suo articolo, anche oggi, e anche quando il valore artistico di Solzenicyn non è più in discussione, le reazioni alla sua opera hanno ancora la stessa caratteristica di un tempo: sembra di parlare di due mondi e di due realtà diverse. Ci pare venga così alla luce un problema fondamentale del sistema totalitario e della menzogna che ne costituisce il cuore, un problema che è stato già messo in luce nella letteratura russa di questo secolo o anche da alcuni autori in occidente (come Alain Besançon, ad esempio), ma sul quale non si è ancora riflettuto abbastanza: la menzogna che Solzenicyn invitava a combattere non è quella classica, di chi mente sapendo di mentire. Non abbiamo qui due parole o due interpretazioni per dire una sola realtà; abbiamo una parola che dice due realtà: Solzenicyn dice libertà dell’artista che appartiene esclusivamente all’arte e al suo mistero irriducibile, Solochov parla della libertà del partito al quale appartiene il cuore dell’artista reso schiavo. Ma allora quando abbiamo diverse posizioni, il contrasto non è più tra due interpretazioni, tra due parole; e la realtà che contraddice la mia parola o il mio giudizio non va reinterpretata, discussa o ricompresa, va semplicemente eliminata. Il terrore qui (o un certo esercizio del potere nelle società democratiche) è il corollario della menzogna: non si mente per nascondere il terrore, ma si terrorizza per mantenere la menzogna. Certo, nelle società democratiche, questo non diventa sistema di potere e resta una mentalità: un nichilismo debole e ben educato, che però un nichilismo scatenato e privo di buone maniere non farà alcuna fatica a spazzar via. Solzenicyn invitava appunto a contrapporsi a questa menzogna, alla menzogna secondo cui l’interpretazione sarebbe più importante della realtà, tanto più importante della realtà da poter pretendere di sostituirsi ad essa e di non dover più verificare se le corrisponde e se non ha creato invece una nuova realtà che non ha più nulla a che vedere con il bene dell’uomo: si diceva «campi di lavoro correzionale» e, mentre gli uomini vi morivano a milioni, alcuni, invece di limitarsi a sopportarli come uno strumento ingiusto ma ’necessario’, li esaltavano come il paradiso in cui veniva creato l’uomo nuovo socialista. Adriano Dell’Asta