Vari, 26 febbraio 2008
LA STAMPA 26/2/2008
TONI ATTINO
ONIO ATTINO
GRAVINA (BARI)
I fratellini sono morti. La soluzione del giallo era in fondo a una cisterna. Venticinque metri sotto terra, in paese, a due passi da casa. I corpi di Ciccio e Tore, i ragazzini scomparsi il 5 giugno del 2006 a Gravina in Puglia, sono stati trovati ieri sera. Per caso. A sorpresa. Per mesi gli investigatori li avevano cercati dovunque: grotte, campagne, gravine, perfino nelle fognature. E dovunque avevano cercato le prove della colpevolezza del padre Filippo, arrestato il 27 novembre dell’anno scorso per sequestro di persona, duplice omicidio e occultamento di cadavere. Ma i fratellini, scomparsi quando avevano 11 (Salvatore) e 13 anni (Francesco), erano lì. Non ci sarebbe stato verso di trovarli se un altro ragazzino, 11 anni, ieri non fosse finito anche lui in fondo alla cisterna, riportando alla mente di tutti la tragedia di Vermicino. Un incidente. Giocava a pallone. I vigili del fuoco sono intervenuti, lo hanno salvato tirandolo fuori. Aveva le gambe fratturate.
Quando l’emergenza sembrava essersi conclusa, si è aperto un altro, inatteso capitolo al giallo dei fratellini. Uno dei soccorritori ha notato, in fondo alla cisterna, cioè 25 metri sotto il livello stradale, due corpi. Hanno intravisto una felpa arancione e un pantalone bianco, gli stessi indumenti che Salvatore e Ciccio indossavano il giorno della scomparsa. Il questore Vincenzo Speranza ha ammesso: «Le condizioni dei cadaveri lasciano pensare che si tratti di Ciccio e Tore». In serata, insomma, la conferma ufficiale. Cancellata la speranza (piccola) che i fratellini potessero essere vivi. Uno dei gialli più ingarbugliati degli ultimi anni è davvero a una svolta. Oggi i vigili del fuoco dovrebbero estrarre i corpi da un cunicolo largo un metro per un metro. Poi gli esami medico legali dovranno tentare di stabilire le cause della morte. Cioè se i fratellini hanno subito violenze prima di finire nella cisterna. In sostanza, se sono stati gettati dal padre - l’unico sotto accusa finora - o se sono caduti.
La giornata di ieri è stata straordinaria: ha intrecciato la paura di una tragedia e il sorprendente ritrovamento dei corpi dei fratellini. I vigili del fuoco sono intervenuti alle 17 in via Giovanni Consolazione, a ridosso della pineta di Gravina. Poche centinaia di metri da piazza delle Quattro Fontane, il luogo in cui per l’ultima volta furono visti Ciccio e Tore. Il ragazzino, 11 anni, giocava con alcuni amichetti nel cortile di un vecchio edificio abbandonato. La porta del recinto avrebbe dovuto essere sprangata. Ma i ragazzi giocavano all’interno. Un volo di 25 metri. L’undicenne, precipitando, ha battuto il volto e si è fratturato entrambe le gambe. I vigili del fuoco sono riusciti a calare nel cunicolo una barella. Dopo due ore il ragazzino, che per tutti il tempo è rimasto cosciente e ha chiesto aiuto, è stato tirato su. Salvo. Una terribile storia con un bel finale.
Pochi minuti per ripensarci. E’ arrivato il procuratore Emilio Marzano. Il magistrato che sostiene la colpevolezza di Filippo Pappalardi, considerato l’omicida dei suoi due figli, rinchiuso nel carcere di Velletri. Una voce circola: in fondo alla cisterna ci sono resti umani. Poi: sono due bambini. Basta questo. Sono i fratellini. Ciccio e Tore. Scomparsi il 5 giugno del 2006. Ripresi dalle telecamere di una banca prima che svanissero. Visti in piazza da delle Quattro Fontane l’ultima volta. Giocavano con alcuni amici. Poi il buio. Il padre li cerca, ma la polizia diffida. Non gli crede: considera il suo alibi lacunoso. C’è un buco di due ore. Dov’era? Sembrava non ci fosse nessun luogo in cui gli investigatori non avessero spiato. C’era: via Giovanni Consolazione, nel centro di Gravina in Puglia. «Una notizia sconvolgente» dice Angela Agliani, avvocato di Filippo Pappalardi, il papà dei fratellini. Se li ha uccisi davvero, aveva un piano diabolico: fare sparire i corpi dei suoi bambini lasciandoli sotto il naso di tutti.
CORRIERE DELLA SERA, 26 febbraio 2008
GIOVANNI BIANCONI
C’è la cronaca e c’è il caso giudiziario. C’è la storia di due bambini spariti e – con ogni probabilità – ritrovati cadaveri quasi due anni più tardi e c’è quella di un uomo in carcere, accusato di averli ammazzati: Filippo Pappalardi, padre di Francesco e Salvatore. Padre assassino e, prima, padre-padrone, sostengono i magistrati che il 27 novembre scorso l’hanno arrestato, mentre lui si proclamava innocente e assicurava che entro un paio di giorni sarebbe tornato a casa, libero e scagionato. Tre mesi dopo lui è ancora in cella, e d’ora in avanti si vedrà se gli indizi che potranno scaturire dalla scoperta dei corpi andranno a rafforzare l’accusa o la difesa, se consolideranno l’ipotesi dell’omicidio o della disgrazia.
intorno a quest’alternativa, prima ancora che sulla colpevolezza dell’unico indagato, che s’avvita l’indagine giudiziaria avviata all’indomani della scomparsa, nel giugno 2006. Perché prima di stabilire chi li abbia eventualmente uccisi, bisogna raggiungere la certezza che i due bambini non siano morti per un incidente. Ipotesi remota, secondo gli investigatori, anche alla luce dell’ultima, drammatica novità di ieri sera. Ma c’è anche chi, dopo il ritrovamento, ha ricominciato a parlare di disgrazia: se in quel buco è caduto accidentalmente il bambino salvato ieri, allo stesso modo possono esserci precipitati anche «Ciccio» e «Tore», com’erano chiamati i due fratelli.
Proprio su questo punto possono venire in soccorso alcuni dei «punti fermi» fissati dalle indagini fino all’arresto del padre dei Pappalardi. Il primo è che poco dopo le ore 21 del 5 giugno 2006 – tra le 21,15 e le 21,20 stabilì la polizia – Francesco e Salvatore erano vivi e «liberi», salutarono gli amici dopo aver giocato intorno alla fontana della piazza di Gravina dove s’erano schizzati e bagnati, e dissero: «Noi ce ne andiamo». Sottinteso a casa, per tutti. Ma a casa non arrivarono mai. Il buio, a quel-l’ora, era sceso quasi del tutto. Possibile che anziché tornare verso l’appartamento dove vivevano col padre e la nuova famiglia abbiano deciso di proseguire nei loro giochi, qualche centinaio di metri più in là, andando a finire in quel precipizio? E tutti e due insieme?
Possibile, certo, anche se strano. Aver fissato l’orario del saluto agli amichetti, già nelle prime fasi delle indagini portò gli inquirenti a escludere l’ipotesi del rapimento (s’era pensato anche su commissione della madre Rosa, che vive in un’altra cittadina e in pessimi rapporti con l’ex marito), che avrebbe potuto compiersi più facilmente prima delle 21. Poi, nel corso di un’indagine «porta a porta » per ricostruire le mosse dei due ragazzini fino a quel saluto alla fontana, saltò fuori un altro testimone, ragazzino anche lui, che aggiunse un ulteriore, inquietante tassello. Disse di aver visto «Ciccio» e «Tore» assieme al padre, sulla macchina di lui. Dichiarazione un po’ traballante, per via della giovane età del testimone e per essere arrivata solo ad alcune settimane dal fatto. Ma fu sufficiente per aprire ufficialmente l’inchiesta a carico di Filippo Pappalardi, dal quel momento iscritto nel registro degli indagati e messo ancor più sotto controllo rispetto ai primi giorni.
C’era anche un altro elemento che faceva crescere i sospetti sul padre degli spariti: il fatto che la sera della scomparsa, dopo essere uscito a cercarli, per circa un paio d’ore papà Filippo non abbia mai telefonato a casa per sapere se i figli erano tornati. La polizia ha scandagliato quasi tutte le chiamate dai e ai circa 15.000 cellulari accesi a Gravina il 5 giugno 2006, senza trovare quella che cercavano. Una «stranezza» che ha alimentato i dubbi sulla versione fornita dall’uomo, finché le intercettazioni carpite in casa sua, nei dialoghi con la convivente, hanno aggiunto il resto.
Parole spezzettate, mozziconi di frasi che secondo i pubblici ministeri e il giudice di Bari dimostrerebbero la colpevolezza del padre. «Non lo dire a nessuno... dove stanno i bambini! Non sia mai la Madonna», avrebbe detto un giorno Pappalardi alla sua donna. La quale, in dialetto stretto come lui, avrebbe reagito con un «ma questo è scemo!», prima che Pappalardi minacciasse: «Mi uccido! ». Un brano di conversazione che, scrive il giudice, «lascia pochi margini di dubbio sulle responsabilità di Pappalardi nella scomparsa dei suoi figli e lascia intendere che anche la Ricupero (la convivente, ndr) sapeva il luogo dove si trovavano Francesco e Salvatore».
Il giudice, a differenza dei pubblici ministeri, nell’ordine di arresto lasciava aperto uno spiraglio alla possibilità che i due ragazzini fossero ancora vivi, ma altri dialoghi registrati dalle microspie svelerebbero – secondo gli inquirenti – la consapevolezza dell’uomo che i suoi figli sono morti; nonostante lui stesso si dichiarasse convinto del contrario in tutte le interviste e dichiarazioni pubbliche. Un’intercettazione è dell’8 giugno, appena tre giorni dopo la scomparsa: «Mo’ devo portare l’acqua ai cani... che è da sab... domenica che non ci vengo qua... dovessero morire
pure i cani...». Una parola scappata, quel «pure», che per il giudice dimostra come il padre sappia già che i suoi figli non sono più in vita. Ancora, in una conversazione di nove mesi più tardi, il 18 febbraio 2007, Pappalardi disse: «La morte... il fatto mio è grosso... questo è un caso internazionale... mai successa la morte di due fratelli, eh!». Ancora un accenno alla morte, che unito ai pubblici proclami sui figli ancora vivi assume per il giudice «un valore gravemente indiziario ».
A contorno di questi e altri elementi, investigatori e inquirenti hanno anche ipotizzato, se non un movente, almeno una giustificazione al duplice omicidio: le passate, ancorché negate dall’indagato, violenze sui figli. E hanno addebitato a Pappalardi perfino un depistaggio (o per lo meno il proposito di alimentarlo) come quello della «pista rumena», o di una alternativa quanto fantomatica «pista bulgara» sulla misteriosa sparizione dei figli. Adesso sono emersi due cadaveri ad alimentare sospetti e dubbi, in un senso e nell’altro; perché bisognerà anche spiegare come abbia fatto, eventualmente, Pappalardi a disfarsi dei due corpi gettandoli in quel precipizio difficilmente accessibile, da solo e senza essere visto. Di sicuro, sia l’accusa che la difesa cercheranno nella tragica scoperta di ieri elementi a sostegno delle rispettive tesi. I due corpi di Francesco e Salvatore restituiti dalle viscere di Gravina rendono più drammatica la cronaca e più aggrovigliato il caso giudiziario.
CORRIERE DELLA SERA, 26/2/2008
MARIO PORQUEDDU
MILANO – «La prima cosa che ho pensato, anche se dirlo ora suona ridicolo, è che un giallista non avrebbe commesso un errore del genere».
Che cosa intende dire?
« incredibile che non ci sia stata una mappatura dei pozzi in città. Chiunque conosca la Puglia sa che ci sono cisterne simili».
Quindi?
«Raccontando questa storia io sarei stato tenuto a parlare al lettore di un posto come quello, per giunta vicino a dove i bimbi scomparsi andavano a giocare».
Massimo Carlotto scrive gialli per mestiere e oggi parla da romanziere, non da cittadino. «Perché è chiaro – dice – che si tratta di una vicenda di grave disagio sociale prima, e poi di enorme sofferenza. Noi, però, stiamo ipotizzando che sia la trama di un romanzo. E in effetti, che a svelare i cadaveri sia stato quel bambino caduto lì sotto è davvero straordinario, degno della fantasia del miglior scrittore».
Però lei dice che c’è un errore, che un libro così non starebbe in piedi.
«Un giallo si basa su questa struttura: crimine, indagine, soluzione. E l’autore conduce il lettore verso la soluzione. Ma la regola è che deve farlo offrendogli tutti gli elementi perché possa arrivarci da solo. Per questo dico che io avrei dovuto pensare a descrivere quel pozzo. Qualunque giallista si sarebbe informato su com’è fatta la città e sarebbe subito andato a cercare in quel luogo».
E invece?
«Le indagini hanno portato lontano da Gravina. Secondo me perché si è inseguita un’idea. Hanno messo le microspie e intercettato il padre, hanno sentito alcune sue frasi e questo ha deviato tutto. Sono arrivati fino in Romania e non hanno guardato lì, a due passi dal centro. Il ritrovamento di ieri, però, apre una falla nell’inchiesta».
Lei non crede che potrebbe averli buttati laggiù l’assassino?
«Teoricamente è possibile, ma sarebbe diabolico: li getto dove sarebbero potuti cadere da soli giocando...».
Dunque pensa a una tragedia?
«Sembra il classico caso di uno che muore cercando di salvare l’altro. E poi: il ragazzino ieri è finito lì dentro perché non ha visto il buco. Ma pare che il cunicolo fosse scoperto. Invece un assassino, dopo averlo usato per nascondere due corpi, l’avrebbe coperto ».
Un giallo ora come proseguirebbe?
«Forse si scoprirebbe che i corpi non sono quelli dei due fratellini. Ma la verità è che a Gravina, a memoria d’uomo, non sono mai scomparsi altri bambini. Quindi, purtroppo, sono per forza Francesco e Salvatore».
Mario Porqueddu