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 2008  febbraio 23 Sabato calendario

E se non fosse un male. La Stampa 23 febbraio 2008. Pare che la superficie coltivata a riso nella pianura del Po tenda a ridursi a beneficio di altre coltivazioni; e ciò proprio mentre i mercati europei e internazionali richiedono più riso

E se non fosse un male. La Stampa 23 febbraio 2008. Pare che la superficie coltivata a riso nella pianura del Po tenda a ridursi a beneficio di altre coltivazioni; e ciò proprio mentre i mercati europei e internazionali richiedono più riso. Confesso che questa notizia mi trova stupito e incredulo. Da quando è iniziata in Lombardia e poi anche in Piemonte, cioè da un po’ più di cinquecento anni, la coltivazione del riso non ha avuto altre ragioni che quelle economiche. Sono le ragioni economiche che le hanno permesso di attecchire e di prevalere sulle culture preesistenti, modificando il paesaggio e il clima e imponendo condizioni di vita che nei primi secoli non dovettero certamente essere piacevoli. Per quasi trecento anni, prima che l’evoluzione dei costumi rendesse tollerato e possibile il lavoro femminile delle mondariso, i lavoratori delle risaie: i «risaroli», come vengono chiamati nei documenti più antichi, furono di fatto degli schiavi reclutati tra i disgraziati della terra, per lavorare nelle risaie dove spesso morivano a causa delle febbri malariche. Nonostante ciò, e nonostante le «gride» dei governatori spagnoli che vietavano la semina del riso per tre miglia intorno ai centri abitati, cioè in pratica dappertutto, la coltivazione del prezioso cereale non solo non è mai venuta a cessare e non si è mai ridotta, ma nelle sue zone storiche: la «bassa» vercellese, quella novarese e la Lomellina, è diventata una monocoltura già in epoche antiche. Cinquant’anni fa, ai tempi del cosiddetto «miracolo economico», la coltivazione del riso si è poi allargata in modo eccessivo, e in Piemonte ha finito per occupare tutte le superfici pianeggianti. In seguito ad alcune circostanze favorevoli: la meccanizzazione dell’agricoltura, l’introduzione dei diserbanti e pesticidi chimici ma soprattutto in seguito all’apertura del mercato europeo, le risaie sono dilagate ben fuori dalle loro zone tradizionali. Hanno oltrepassato il Po, nella provincia di Alessandria; si sono spinte fino alle porte di Biella, superando i dislivelli del terreno collinare con una serie ininterrotta di terrazze; sono arrivate, ad Ovest, a lambire la provincia di Torino. Tutto ciò ha creato dei problemi, dovuti alla scarsità dell’acqua: la pianura del riso si allargava e l’acqua diminuiva. Per ovviare a questo inconveniente si stanno sperimentando nuove tecniche di coltivazione, che richiedono meno acqua. Dal punto di vista ambientale, una riduzione complessiva del terreno coltivato a riso e un ritorno, almeno parziale, a tipi di culture non acquatiche non costituisce certamente un fatto negativo. La negatività è solo economica. Ed è sorprendente, se davvero si tratta di ravvedimento, l’attuale ravvedimento degli agricoltori: che non arretrarono mai in passato, nemmeno di fronte alle febbri malariche dei loro congiunti, alle morie dei «risaroli», alle «gride» dei governatori spagnoli, e ora arretrano spaventati da un poco di siccità. Nonostante la domanda del mercato stia crescendo, e stiano crescendo le prospettive di guadagno. Ma, forse, all’origine di questa situazione ci sono delle ragioni che mi sfuggono, e che determinano dei comportamenti altrimenti inspiegabili. Forse le prospettive di guadagno non sono più tanto buone. Chissa! Sebastiano Vassalli