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 2008  febbraio 23 Sabato calendario

Se la finanza segue la shari’a. Avvenire 23 febbraio 2008. La prima banca privata islami­ca è stata fondata a Dubai nel 1975, praticamente ieri, dallo sceicco Hussein Hamid Hassan

Se la finanza segue la shari’a. Avvenire 23 febbraio 2008. La prima banca privata islami­ca è stata fondata a Dubai nel 1975, praticamente ieri, dallo sceicco Hussein Hamid Hassan. «La gente diceva che era un’idea assur­da – ha dichiarato al Financial Times ”, come aprire una distilleria islami­ca di whisky». L’anno dopo nacque la Banca islamica dello sviluppo, in seguito a una raccomandazione del vertice islamico di Lahore, in Paki­stan, nel 1974. Ha il quartier generale a Jeddah, in Arabia Saudita, e fun­ziona a immagine della Banca mon­diale per il mondo musulmano. In poco meno di quarant’anni, con lo sguardo dell’Occidente rivolto al­trove, la finanza islamica ha scalato il mondo. La geografia economica ha nell’islam un nuovo protagoni­sta, in grado di modificare equilibri e fisionomia al grande business. La crisi di liquidità seguita alla crisi dei mutui subprime ha costretto le principali banche d’affari mondiali a svalutare i propri portafogli e chia­mare in soccorso capitali freschi, in larga parte accordati dai fondi so­vrani dei Paesi arabi. In aiuto a Citi­group, la prima banca al mondo, è corso ad esempio il principe saudi­ta al-Walid, pronto a sottoscrivere obbligazioni convertibili. Citigroup aveva già incassato un assegno da 7,5 miliardi di dollari dal fondo so­vrano di Abu Dhabi, capitale degli E­mirati Arabi. Anche Merrill Lynch ha definito un’emissione converti­bile da 6,6 miliardi di dollari, garan­tita, tra gli altri, dal fondo sovrano del Kuwait. Alla fine dello scorso an­no, poi, dal Qatar è arrivato l’an­nuncio dell’acquisto di quote rile­vanti sia della Borsa di Londra sia di Omx, la piazza finanziaria scandi­nava. La Borsa di Dubai, infine, ha intrecciato il proprio capitale con quello del Nasdaq, il primo listino tecnologico al mondo, e si è a sua volta aggiudicata un bel pezzo del London Stock Exchange, seconda Borsa del pianeta. Dall’alta finanza a quella spicciola, ci sarà presto in Italia, probabil­mente a Roma, una banca islamica che rispetterà il codice etico dei mu­sulmani e le regole della shari’a. L’a­pertura del primo sportello è previ­sta entro l’anno, ha annunciato Ad­nan Yousif, presidente dell’Unione delle banche arabe, firmando a set- tembre un’intesa con l’Associazio­ne bancaria italiana. Con lieve ritar­do anche il nostro Paese segue Fran­cia, Germania, Olanda e, soprattut­to, Regno Unito, dove esistono già diversi istituti arabi. In Italia ci sono circa novecentomila mussulmani con sessantamila imprese avviate. Si tratta di una rivoluzione econo­mica e culturale dirompente. Che ri­schia di coglierci ancora una volta impreparati. Agli studi condotti nel nostro Paese su questo tema da E­milio Vadalà, Nicoletta Ferro, Luigi Alfano, Luciano Fioroni, Ugo Co­lombo, Enzo Mario Napoletano e pochi altri, si affiancherà dal 27 feb­braio il volume dell’economista La­chemi Siagh, L’islam e il mondo degli affari. Siagh, forte di un’esperienza in grandi società finanziarie canadesi e francesi, presenta nel suo lavoro un’immagine fedele dei principi fon­damentali dell’islam e di ciò che lo differenzia dal pensiero occidentale in campo economico. «Per un de­cennio – spiega l’economista Mauri­zio Guandalini nell’introduzione – sull’argomento finanza islamica è ca­lata o continua a calare in Italia la sin­drome di stand by. Questo volume è in grado anzitutto di colmare gli an­ni di ritardo. Soprattutto per quel che riguarda l’islamic banking, il cuore della finanza islamica, che pesa oggi a livello globale quaranta volte in più rispetto al 1982». L’islam è un modus vivendi, compe­netrazione tra religione e vita sociale ed economica: l’homo oeconomicus islamicus, parafrasando A­dam Smith, agisce sempre secondo la shari’a, la legge i­slamica. Per questa ragione, nei Paesi islamici esiste una economia religiosa pratica­mente sconosciuta agli eco­nomisti occidentali. Due i pi­lastri: la proibizione del tas­so di interesse, equiparato a usura (entrambi i termini si traducono con riba) e la proibizione di tutto ciò che è incertezza ( gharar), limite che influisce direttamente sul mercato assicurativo. «La finanza i­slamica – continua Guandalini – non tratta in denaro ma in rapporti, col­laborazioni, triangolazioni. Non pre­sta: partecipa». La condivisione del rischio è infatti alla base del cosid­detto ’ profit and loss sharing’, la condivisione di perdite e profitti per raggiungere equità distributiva. In base a questa regola, un finanziato­re non può imporre al debitore un tasso di interesse, poiché questo non tiene in conto l’effettivo risultato del­l’investimento. In Gran Bretagna, la Islamic Bank of Britain e la West Bromwich Building Society offrono da tempo prodotti che rispettano la shari’a, in particolare mutui, attuati tramite lo schema del murabahah. La banca acquista l’immobile per conto del cliente e lo rivende a rate al cliente stesso a un prezzo mag­giorato di un parametro che rappre­senta la rimunerazione associata al rischio della transazione immobilia­re. Le obbligazioni che rispettano i prin­cipi musulmani non pagano tassi di interesse sul denaro ma sulla base dei profitti generati da quel denaro una volta investito in una concreta attività economica; devono poi te­ner conto che i musulmani non pos­sono investire in diversi settori, dal­l’allevamento suino all’industria dei vini e dei liquori. Conclude Guanda­lini: «Cardine dell’islam è zakat, do­nazione, una tassa religiosa a cui sono soggette le stesse banche». La banca Dar al-Mal al-Islami, tanto per intendersi, ha già stanziato per la zakat qualcosa come venti milio­ni di dollari. Purificazione della pro­pria ricchezza attraverso la redistri­buzione: la finanza islamica espri­me la sua originalità rispetto al si­stema economico occidentale, che esclude chi non ha i mezzi. Una sfi­da anche culturale, quindi, nel fran­gente in cui la finanziarizzazione del capitalismo e il crollo definitivo dei sistemi collettivistici costringe l’Oc­cidente a ripensare la stessa struttu­ra economica. Marco Girardo