Il Messaggero 20 febbraio 2008, DARIO FO, 20 febbraio 2008
Fo, lo spettacolo della Cena. Il Messaggero 20 febbraio 2008. Sapete tutti che il dipinto murale di Leonardo si trova nel grande refettorio di Santa Maria delle Grazie; misura otto metri e ottanta di larghezza per quattro e sessanta di altezza, più una cornice in alto di due metri e mezzo circa
Fo, lo spettacolo della Cena. Il Messaggero 20 febbraio 2008. Sapete tutti che il dipinto murale di Leonardo si trova nel grande refettorio di Santa Maria delle Grazie; misura otto metri e ottanta di larghezza per quattro e sessanta di altezza, più una cornice in alto di due metri e mezzo circa. Leonardo, che ben conosceva la tecnica dell’affresco, preferisce, in questo caso, tentare con un nuovo metodo da lui inventato ma mai sperimentato, cioè una pittura a tempera su stabilitura secca. Ma qual è la differenza fra il dipingere a tempera e lo stendere i colori a ”buon fresco”? Personalmente per quattro anni a Brera ho studiato quest’ultima tecnica; si tratta di un modo di dipingere che amo moltissimo e che richiede prima di tutto una notevole agilità nello stendere i colori, l’avere in mente ben chiaro tutti i movimenti, possedere un’appropriata gestualità che ti permetta di coprire, stendere le colorazioni intingendo i pennelli nei barattoli vari, precedentemente preparati. Il tutto in una vera e propria gara col tempo... un gioco di prestigio giacché la rapidità con cui il colore viene assorbito dalla malta stesa sulla parete (stabilitura) non permette di superare le tre ore di ”lasso”. Dopo quel tempo, come si dice in gergo, i colori bruciano, e si rischia di distruggere anche la pittura che è già stata eseguita. Prima del colore, infatti, la parete deve essere trattata con una serie di strati preparatori a base di malta più o meno fine. Quando l’ultimo strato non è ancora del tutto asciutto, bisogna stendere i colori che si vanno quindi a fissare all’intonaco stesso. Quest’operazione deve essere perciò svolta il più velocemente possibile e con grandissima agilità. Leonardo invece aveva in progetto di operare senza essere passato dal tempo, sperimentare tecniche nuove, andare oltre, sprofondarsi dentro la sua pittura, poterla buttare all’aria, ricoprirla, rivederla, e quindi doveva forzatamente scegliere una tecnica diversa dall’affresco, cioè, come abbiamo già detto, pittura a tempera su stabilitura secca. Purtroppo la grande parete sulla quale è stato eseguito il dipinto si trovava e si trova in un refettorio dove le fondamenta dei muri ”pescavano in falda alta” per cui questi assorbivano umidità che, per effetto del calore nella grande sala, impicciavano d’umido l’aria e quindi il pavimento, il soffitto e le pareti stesse. In pochi anni la grande tempera andò in rovina: emergevano i cosiddetti ”fiori biancastri”, spuntati sulla stabilitura secca del dipinto. Il colore cadeva come una patina scollata. Giorgio Vasari che, con le sue Vite dei più eccellenti architetti, pittori e scultori italiani è un po’ il cronista del tempo, vide l’opera a distanza di dieci anni dalla chiusura del cantiere, cioè ultimata. Disperato, la descrisse come ”una ruoinosa spallunzata”. Proprio negli anni in cui l’Ultima cena lentamente sta franando, i Francesi, sconfitto a Novara l’esercito di Ludovico il Moro che si era ribellato al loro assoluto dominio, occupano Milano. I soldati e i mercenari dilagano nel castello del duca, s’imbattono nel modello in terracotta del grande cavallo montato da Francesco Sforza e lo trasformano in una specie di tiro a segno sparacchiandogli addosso centinaia di colpi di moschetto fino a distruggerlo. Tutta la corte del duca è catturata e tradotta prigioniera in Francia. Leonardo con qualche suo amico, portandosi dietro alcuni testi, i codici e i disegni realizzati negli ultimi vent’anni, se ne va da Milano per tornare a Firenze, dove da qualche mese è stata proclamata la Repubblica. Qui incontra Niccolò Machiavelli (segretario del nuovo governo): con lui ha scambi di idee e di programmi. Machiavelli diventa di fatto un suo maestro di politica e dei nuovi valori di democrazia. un incontro davvero storico. Dopo qualche anno Leonardo torna nella capitale lombarda al servizio dei Francesi: dicono che per più di un mese non ebbe il coraggio di far visita al dipinto dell’Ultima cena, ormai illeggibile. Molti suoi allievi e seguaci, nonché epigoni di tutta Europa, cercavano di riprodurre l’ormai famosissimo dipinto, quasi nel tentativo di farlo risorgere; ci si sono cimentati fiamminghi, pittori francesi, tedeschi e una moltitudine di italiani. La Cena viene riprodotta persino su arazzi. Ma possiamo dire che nessuna copia si avvicina al clima e alla magia dell’originale. I restauri nei vari secoli si sono susseguiti a decine, alcuni sono stati realizzati da esperti dignitosi, altri da incompetenti per di più cialtroni, maestri solo di presunzione. Quasi con ritmo da vulcano spietato, il muro risputava ogni decennio l’inutile aggiustamento. Oggi, grazie alla sapienza e al lavoro metodico e davvero intelligente della équipe di una restauratrice a dir poco geniale, Pinin Brambilla, abbiamo finalmente la possibilità di poter almeno immaginare come questo capolavoro appena concluso apparisse nel 1498. L’operazione ha nel suo risultato un notevole pregio: quello di non aver voluto ricostruire ciò che non c’era. Non solo, ma nella ripulitura si sono tolti gli aggiustamenti arbitrari dei precedenti restauri e come per miracolo si sono riportati alla luce particolari straordinari di pittura ormai dati per scomparsi, a cominciare dall’arredo della tavola con i pani, le stoviglie di peltro e una stupenda ampolla di vetro che sembra dipinta nell’aria. DARIO FO