Roberto Alonge, La Stampa 22/2/2008, pagina 1-61., 22 febbraio 2008
Che i concorsi universitari siano truccati lo sanno tutti. Ci sono tuttavia casi diversi, come nelle partite di calcio
Che i concorsi universitari siano truccati lo sanno tutti. Ci sono tuttavia casi diversi, come nelle partite di calcio. Se si gioca fuori casa, è onorevole anche solo il pari. Ma se si gioca in casa, non vincere è assolutamente disonorevole. Se l’Università di Torino bandisce un concorso, deve assolutamente vincere il candidato torinese. Se non ci sono candidati torinesi, non si fa il concorso. Trovare i soldi per bandire un concorso costa un sacco di fatica; è normale che debba vincere il candidato della Università che bandisce. Per i figli si possono spendere soldi, ma non si spendono, se non sono figli (legittimi, o almeno naturali). Mentalità familista, si dice, tipicamente italiana. Si amministra la cosa pubblica (l’Università) come se fosse la propria famiglia, con gli stessi criteri. C’è anche il piacere (legittimo) di avere una propria scuola, e dunque il desiderio di mandare in cattedra i propri allievi. Io scrivo delle cose di valore, e i miei allievi scrivono anch’essi delle cose di valore. Perché non dovrebbero vincere? Sì, ci sono anche gli altri, ma è molto difficile riconoscere che gli altri sono meglio di me, e che gli allievi degli altri sono meglio dei miei. Ovviamente ci sono delle eccezioni, ma valgono quello che valgono, cioè nulla. Ad esempio, a Torino, nel settore Teatro, 7 docenti su 17 non sono torinesi, cioè ben il 41% (con qualche eccellenza di grande valore: Franco Perrelli, scandinavista di rilevanza internazionale; Alessandro Pontremoli, il maggior studioso italiano di danza). Ma si tratta, per altro, di una virtù che nasce da un vizio, dalla incapacità della sede torinese a creare dei propri allievi. Cosa assolutamente anomala, nella storia dell’università italiana, dove anche il più stupido crede di aver prodotto una scuola e degli allievi. Dunque, normalmente, quando ci sono degli allievi, si spingono gli allievi, per i motivi che ho detto, che sono prima di tutto psicologici. Come può un maestro spiegare al proprio allievo, che il concorso a ricercatore l’ha vinto un altro, che viene da fuori, perché è più bravo di lui? E’ una umiliazione senza fine: per il maestro prima ancora che per l’allievo. Conosco un barone torinese, che non riuscì a far diventare associato il proprio ricercatore, in un concorso bandito da Torino: ci mise due giorni, prima di telefonare all’allievo, e dirgli che aveva perso. Sono situazioni dolorosissime. Un po’ come quando i figli scoprono che il padre socialmente non vale nulla: niente di più doloroso e avvilente, per i figli e per il padre. Poi ci sono le miserie umane, le fragilità della carne: un maestro che sfrutta per anni un allievo, che gli fa fare il portaborse, gratis, senza un euro di rimborso (non per cattiveria, ma perché non ci sono soldi in Università): che gli fa fare esami, che gli fa seguire delle tesi di laurea, che si fa sostituire da lui a lezione, quando sta male, oppure quando va a sciare o va al mare in barca a vela. Quando, dopo anni di sfruttamento, arriva un concorso a ricercatore, può questo maestro non far vincere il proprio allievo, anche se riconosce che al concorso si è presentato un altro più bravo del suo? A quel punto, il posto di ricercatore è quasi un diritto acquisito, come una cambiale pagata in ritardo. Ma il bello (o il brutto, decidete voi) è quello che accade quando, per accidente, c’è una situazione del tutto pulita. In un concorso di ricercatore cui ho partecipato recentemente, stranamente, ha vinto il migliore. I tre commissari si sono trovati d’accordo a elaborare una sorta di griglia valutativa di 100 punti (da 1 a 35 punti per le pubblicazioni dei candidati, 8 punti per il titolo di dottore di ricerca, massimo di 15 punti per ciascuna delle due prove scritte, 10 per l’orale, ecc.). S’intende che l’impianto puzza lontano un miglio di ingegneria sindacalese (o sindacalista), utilizzata a piene mani per i concorsi degli statali. Ma, comunque, il marchingegno ha una sua oggettività, attenua il rischio di una discrezionalità che diventa facilmente arbitrio. Soprattutto se si ha l’onestà di evitare trucchi, ricorrendo opportunamente a qualche sapiente accorgimento (decidere i temi degli scritti solo un quarto d’ora prima delle prove, così da evitare fughe di notizie; correggere gli scritti, e valutarli, a busta chiusa, cioè senza guardare chi è l’autore dei medesimi). L’Università che bandiva il concorso non ha voluto però che mettessimo a verbale questa griglia: avremmo dovuto inserirla nel verbale della prima seduta (quella in cui appunto si indicano i criteri). Insomma, che la griglia restasse un nostro ragionamento interno, in qualche modo segreto. Vista tuttavia la bontà dei risultati, alcuni colleghi di Teatro (impegnati successivamente in nuovi concorsi di ricercatore) hanno cercato di riprodurre il meccanismo, inserendo la griglia sin dal verbale della prima seduta. Colpo di scena! A parere inconfutabile dell’Università in questione (una Università seria, non cialtrona) la griglia non va bene. Ho provato a chiedere all’ufficio concorsi dell’Università di Torino. Stessa risposta: la legge istitutiva degli attuali concorsi, inventata da Berlinguer, prevede procedure di valutazioni comparative fra i candidati, e non, dunque, assegnazione di punti, che implica una sorta di oggettività matematica, che è l’esatto contrario di quanto richiesto dalla legge. Come dire che è la legge stessa a invocare e pretendere la discrezionalità (che poi diventa arbitrio), al posto di un minimo di rispetto oggettivo dei dati. Naturalmente non sono un ingenuo. Non voglio veramente dire che il difetto sta nel manico, che la corruzione dei concorsi sta nella legge, e non già nei commissari. Diciamo che il manico non è stato fatto dall’accidente, cioè che la legge stessa si è costituita a difesa dell’arbitrio. Ovviamente, non succede solo in campo universitario. E’ tutta l’Italia che funziona in questo modo. E’ come quando si arrestano piccoli delinquenti (ma qualche volta anche grandi delinquenti) che vengono immediatamente rilasciati, senza nemmeno un giorno di galera: perché, a fronte di reati di quel certo tipo, la legge non prevede la galera. Roberto Alonge