Corriere della Sera 25 febbraio 2008, PAOLO DI STEFANO, 25 febbraio 2008
Verga e l’ossessione per il denaro
Verga da Christie’s: l’ossessione per la «roba». Corriere della Sera 25 febbraio 2008. Nel 1886 Giovanni Verga è un quarantaseienne di indubbio successo. E non tanto per I Malavoglia che, se non furono il «fiasco pieno e completo» di cui l’autore si lamentò con l’amico Capuana, poco ci mancava. Quanto per la Cavalleria rusticana, la novella da cui Verga nell’estate dell’83 aveva tratto un adattamento teatrale che il 14 gennaio seguente sarebbe stato rappresentato al Teatro Carignano di Torino. E che si risolse in un trionfo di pubblico e di critica grazie anche alla presenza di Eleonora Duse nel ruolo di Santuzza. Per la verità l’anno prima la riduzione di un altro racconto, rappresentata al Manzoni di Milano con il titolo In portineria, gli aveva procurato qualche dispiacere, ma in quel 1886 è comunque un intellettuale riconosciuto e ammirato non solo in Italia. già alle prese con il Mastro-don Gesualdo, continua a lavorare alle novelle e in una delle sue frequenti puntate a Roma ha già conosciuto la contessa Dina Castellazzi di Sordevolo, con cui avrà un’intensa corrispondenza. Il chiodo fisso però sono le preoccupazioni economiche. da Roma e poi da Milano che scrive al fratello Mario numerose lettere che testimoniano le sue tribolazioni di carattere economico. Basta sfogliare il ricco epistolario che Christie’s metterà all’asta a Parigi il 28 aprile (197 lettere inedite a Mario, appunto, tra l’86 e il ’98) per notare come l’aspetto monetario sia un leitmotiv nei pensieri dello scrittore siciliano, quasi da far apparire l’avido Mazzarò de La roba come una sorta di inconfessato autoritratto (del resto, il tema della roba ritornerà ampiamente nel Mastro- don Gesualdo). Un pensiero dominante che sarà aggravato dalla lunga e penosa causa contro Pietro Mascagni. Ma andiamo con calma. Nel suo corsivo non sempre comprensibile che spesso lega con svolazzi parole diverse, Verga non si stanca di ragguagliare il fratello su questioni di prestiti bancari, di debiti, di crediti fondiari, di rate da pagare, di mutui, di compravendite, di piccole proprietà, con toni a volte anche drammatici, tale è il tormento finanziario di Verga: «Scusami per il ritardo ma non ho avuto né testa né animo… e da 8 giorni viviamo con Pietrino in un vero inferno di cui la morte sarebbe cento volte preferibile (…) facevamo conto sulla vendita (di quel terreno)… ci viene a mancare la terra sotto i piedi, resteremo qui legati alla catena» (9 ottobre 1886). Le vicende letterarie sembrano quasi eventi incidentali rispetto alle tribolazioni amministrative, anche laddove coincidono con ampi riconoscimenti. Come quando, nell’87, finalmente In portineria, in scena a Roma, si riscatta e segue le sorti felici della Cavalleria: «La recita (con Flavio Andò, Teresa Bernieri e la Duse) ha avuto uno splendido successo a quello che dicono tutti, perché, come sai, io non ero in teatro. Un successo tanto più grande in quanto che il pubblico era pessimamente prevenuto dal fiasco di Milano e dalla grande astiosità dei giornali. La Duse è stata preziosa e ha trascinato tutti». Ma eccolo ancora, il Verga-Mazzarò che fa i conti fino all’ultima lira: finito in Val d’Aosta «per sfuggire al caldo di Roma», ma attento a risparmiare sull’albergo e a sceglierne di quelli che «con sette o sei lire al giorno (…) fanno tutta pensione». Eccolo, attento a «ripigliare le trattative al Corriere di Napoli di cedere i diritti di pubblicare… degli altri tre romanzi ora». E anche quando il 12 febbraio 1889 chiede al «caro fratello » di spedire subito all’editore Treves il manoscritto del rifacimento del Mastro-don Gesualdo «incollato colle stampe della Nuova Antologia », non sembra lasciarsi andare a particolari entusiasmi. Perché, sempre attanagliato da vere o presunte beghe pecuniarie, angosciato di continuo dai debiti, preoccupato del proprio nome e del proprio onore, non vede l’ora di «poter disporre con tranquillità d’animo del (mio) tempo». Vorrebbe vendere tutto, casa e mobili, perché lo scrittore può accontentarsi «di qualche quinterno di carta e del vestito che ho addosso», pur considerando altre necessità di base: «Mandami (a Milano, ndr) quelle tre paja di mutande di tela di cui ho molto bisogno». E ancora: il «macinino o mulinello da caffè», un paio di polsini da camicia, un paralume «inargentato», una tazza, due piatti eccetera. Chiede notizie a Mario di una «piccola catenella di oro» tenuta in una cartella, gli comunica di aver fatto un abbonamento presso un barbiere per sole quattro lire al mese, gli ricorda che il soprabito è «troppo leggero, oltre ad essere ormai vecchio e tarlato». E i lamenti non sono finiti: c’è un contratto che lo costringe a fare «delle cose di cui farei tanto volentieri a meno e non posso permettermi quella filosofia che mi permetto a casa mia». Certo, la filosofia di Verga, in questo decennio, è strettamente monetaria: espone al fratello persino i conti del «servizio pulitura di scarpe», compreso nella cifra, «modicissima», dell’affitto e della colazione. L’affaire Mascagni arriva nel 1890 a complicare le cose. In breve: due anni prima il giovane mu-sicista, all’insaputa dell’autore, aveva chiesto a due librettisti, Targioni-Tozzetti e Menasci, di trarre dalla Cavalleria rusticana un’opera lirica in un atto. Lo stesso Mascagni ne avrebbe scritto la musica in soli due mesi di furore creativo. Quando l’opera, dopo essere stata rifiutata sdegnosamente da Ricordi, venne presentata al concorso di Sonzogno, ottenne il primo posto. Fu poco prima della rappresentazione, fissata per il 17 maggio ’90 al Teatro Costanzi di Roma, che il compositore scrisse a Verga ricordando la sua vita «di privazioni e di miseria» a Cerignola e comunicandogli che si apriva per lui il «sogno dorato» di uscire dall’oscurità, sempre che lo scrittore gli concedesse la possibilità di portare in scena la Cavalleria. Nessun problema, risponde Verga, per l’aspetto economico «potremo intenderci». Ma alle buone intenzioni iniziali seguirono anni di controversie giudiziarie, in parte testimoniate dalle lettere a Mario, controversie direttamente proporzionali ai trionfi mietuti dall’opera nei teatri italiani. Passano pochi giorni dal successo di Mascagni e Verga scrive al fratello: «Sonzogno ha comprato l’opera dal Mascagni ma ora ha da fare i conti con me che mi son riservati i miei diritti». In ottobre, dopo la proposta dell’editore di sanare la faccenda con mille lire una tantum (proposta ovviamente rifiutata), siamo già allo studio delle linee difensive e alle richieste legali rivolte alla Società degli Autori: «Treves saputo il contratto mi ha detto che sono in una botte di ferro, sono parole testuali». In questo clima, le notizie, il 9 dicembre 1890, dell’uscita del primo volume delle Novelle e della «splendida edizione del Mastro-don Gesualdo in tedesco », ma anche l’accoglienza entusiastica della Lupa in casa Ricordi, definita «terribilmente bella» (lettera del 28 aprile 1891), sembrano consolazioni di poco conto. La Vittoria, con la maiuscola, arriverà presto, dopo estenuanti trattative, giochi al rialzo e al ribasso, rilanci, tentativi di patteggiamento. Il 17 giugno, Verga è al settimo cielo, la Corte d’appello di Milano ha sentenziato in favore dello scrittore. Che gongola: «la Vittoria è venuta, c’è stata e sarete tutti contenti ». Si appella alla grazia di Dio, capace di «togliermi finalmente da tante pene»: «Questa è una vera benedizione del Cielo e furono certo le anime dei nostri morti che ci hanno ottenuto la grazia. Ho sofferto anni. Ma se Dio vuole le nostre pene sono adesso finite e potremo goderci in pace gli anni che ci restano, tutti quanti. Sto facendo registrare la sentenza e la notificherò subito». L’accordo prevedeva che entrassero nelle tasche di Verga, a riparazione del danno subito, ben 143 mila lire, equivalenti a oltre mezzo milione di euro attuali. La somma, stratosferica per l’epoca, gli servirà a colmare i debiti e ad acquistare un agrumeto nei pressi di Catania. Ma non basterà né a sedare le sue ansie finanziarie né a regolare per sempre la vertenza con Sonzogno e con Mascagni, che una decina d’anni dopo si riaprirà. PAOLO DI STEFANO