La Stampa 19 febbraio 2008, Giuseppe Zaccaria, 19 febbraio 2008
L’emergenza per noi serbi. La Stampa 19 febbraio 2008. La prima bandiera del nuovo «Kosovè» è stata innalzata all’imbocco del ponte, sotto scorrono le gelide acque dell’Ibar e dall’altra parte c’è la Mitrovica serba che oggi sembra più arcigna di sempre, come rinserrata oltre la cortina di una nuova guerra fredda
L’emergenza per noi serbi. La Stampa 19 febbraio 2008. La prima bandiera del nuovo «Kosovè» è stata innalzata all’imbocco del ponte, sotto scorrono le gelide acque dell’Ibar e dall’altra parte c’è la Mitrovica serba che oggi sembra più arcigna di sempre, come rinserrata oltre la cortina di una nuova guerra fredda. Da questa parte e fino alla metà del ponte vige il riconoscimento americano, dalla metà in poi vale il «niet» russo. Nessuno sa come andrà a finire, ma nel frattempo poliziotti albanesi con la divisa kosovara stazionano dalla parte Sud e poliziotti serbi con la medesima uniforme controllano il versante opposto. Dicono che 340 agenti di religione ortodossa si siano già dimessi per entrare a fare parte del «Mup», la polizia di Belgrado, ma la Mitrovica delle minoranze scende in piazza per manifestare. I radicali ripetono le parole d’ordine di sempre: radici, tradizione, ostinazione. Ivano Macrì segue con interesse e commenta: «Vedrete, alla fine non accadrà nulla di grave», poi fa al visitatore «vieni nel mio bar» e una volta dentro descrive in termini semplici una realtà sorprendente. Sintetizziamola così: Mitrovica sta per diventare una enclave ricca. Macrì è qui da sette anni, unico italiano di Mitrovica. Arrivò da Rosarno, in provincia di Reggio Calabria. Ha seguito una parabola che negli ultimi anni è divenuta tutt’altro che rara: prima una missione da cooperatore volontario, poi l’incontro con una ragazza serba, Sijlvia, che ha sposato. Anziché portare la moglie in Italia, Macrì si è spostato a Mitrovica perché «a Rosarno non si viveva meglio». Il resto è venuto in fretta: importazione di caffè, acquisto del bar Paris, piccolo ma frequentato, un lavoro di import-export che funziona sempre meglio e bei progetti per il futuro. «Nella regione di Mitrovica non si pagano tasse, Belgrado retribuisce i suoi funzionari con paghe doppie rispetto al suo territorio, acqua e luce sono gratis e il fatto di trovarsi su una frontiera che da ieri è anche semiufficiale non può che incrementare gli scambi». Oltre al famoso e malfamato «bar Dolce vita», quest’orgogliosa città dimezzata comincia ad attrezzarsi di discoteche, la più frequentata di chiama «Crna Dama» o per i membri della missione Unmik «Black Lady». Macrì continua ad allargarsi con il lavoro e altri lo seguono. Oggi nel totale paradosso kosovaro per Mitrovica Nord si apre un’altra pagina e il cambiamento si avverte con chiarezza. L’aspetto più ostentato sta nelle manifestazioni di piazza, le implorazioni millenariste del vescovo Artemje, il frequente apparire di ceffi formato armadio e le bombe molotov lanciate di notte contro gli uffici in via di smobilitazione dell’Onu. Qualche disordine può verificarsi ancora, ma dietro tutto questo, e neppure troppo nascosta, affiora la spinta verso un’economia intessuta di traffici di ogni tipo che sta per trasformare la vita della minoranza serba. Nel disfacimento jugoslavo non è un fenomeno nuovo, è già accaduto altrove, per esempio a Brcko sul confine serbo-bosniaco, dove da anni fiorisce un mercato universale che fa incontrare trafficanti e contrabbandieri di tutti i Balcani. Mitrovica Nord da 48 ore è città affacciata su una frontiera semiufficiale e non intende perdere questo vantaggio (né tutto sommato votare per l’annessione alla Serbia o almeno non troppo presto, poiché si perderebbero i vantaggi dell’emergenza). In serata scoppia un’altra granata, senza conseguenze, presso una caserma della polizia dell’Onu. Ma la folla che assiste alla manifestazione dei radicali, quattro o cinquemila persone, a parte qualche bandiera albanese e americana bruciata, appare tranquilla: le donne sono ben vestite, i giovanotti calzano scarpe sportive alla moda. «Sono andato a Pristina pochi giorni fa - continua Macrì - per sdoganare un carico di sanitari arrivati dall’Italia: qualche fax, buoni contatti e un utile di qualche migliaio di euro». Qui nei bar o nei ristoranti, tutti molto frequentati, ti chiedono se vuoi pagare in dinari o in euro. «Questa è una città che crescerà ancora - continua Macrì -, certo ci sono gruppi di teste calde e nessuno accetterebbe mai un potere albanese ma le cose possono tranquillamente andare avanti così». Nulla di più stabile di un equilibrio precario che consentirà a imprenditori e contrabbandieri delle due zone di prosperare. Dall’altra parte del ponte resti pure la polverosa moschea degli albanesi: al centro esatto fra le due rive, di fronte alla nuova bandiera del «Kosovè», il vero simbolo del futuro è in una scintillante e nuovissima filiale di banca. Giuseppe Zaccaria