La Stampa 21 febbraio 2008, Francesco Semprini, 21 febbraio 2008
”L’embargo Usa non serve più”. La Stampa 21 febbraio 2008. Il cambio ai vertici dell’Avana è dettato dalle condizioni di salute di Fidel Castro, ma le cose non saranno più le stesse con il fratello Raul, privo del carisma e della popolarità di cui godeva il lider maximo
”L’embargo Usa non serve più”. La Stampa 21 febbraio 2008. Il cambio ai vertici dell’Avana è dettato dalle condizioni di salute di Fidel Castro, ma le cose non saranno più le stesse con il fratello Raul, privo del carisma e della popolarità di cui godeva il lider maximo. In questo senso per Cuba è l’inizio di un cambiamento. E’ l’analisi di Ted Sorensen, consigliere storico di J.F. Kennedy del quale curava discorsi e interventi pubblici tanto da guadagnare l’appellativo di «alter ego» dell’ex presidente americano. Come giudica il cambio di leadership a Cuba? « una scelta forzata, dovuta alle condizioni di salute di Fidel Castro che ha voluto il fratello Raul per mantenere la barra del timone sulle posizioni di sempre da un punto di vista politico, economico e diplomatico. Tuttavia le cose non saranno le stesse perché il lìder maximo è un personaggio unico nel suo genere che ha avuto un grande seguito nel suo Paese. Nonostante lo stesso cognome il fratello non ha lo stesso carisma». Quali sono gli scenari possibili per il futuro? «Sarà il popolo cubano a scegliere il proprio futuro e Stati Uniti ed Europa devono rimanere al di fuori di certi meccanismi che appartengono solo alla gente dell’isola. Ritengo invece che l’Onu possa farsi garante di un processo di riconciliazione, sempre che gli Stati Uniti abbiano un presidente che creda nel ruolo delle Nazioni Unite». Vuol dire che dipenderà dal colore dell’amministrazione? «Senza dubbio: con i democratici alla Casa Bianca ci sarà una maggiore propensione al dialogo e a eliminare l’embargo dopo ovviamente che l’Avana fornirà opportune garanzie». Cosa dovrebbero fare quindi gli Usa? «Terminare l’embargo economico, anche perché penalizza soprattutto l’America. Cuba ha rapporti commerciali e riceve investimenti e turismo da tutte le parti del mondo mentre con le sanzioni sono una sponda per giustificare i fallimenti economici dell’Avana e per creare il mito di un nemico imperialista che infierisce sul popolo innocente». Quale sarà la reazione degli esuli cubani? «Le nuove generazioni sono a favore della riconciliazione e per la fine dell’embargo, puntano a riappropriarsi della loro identità e della loro terra in maniera morbida, vogliono andare a trovare le famiglie o recarsi a Cuba in vacanza. Desiderano aiutare la popolazione, senza tuttavia seguire disegni sovversivi o di riconquista con la forza». Siamo lontani dai tempi della Baia dei Porci? «Certamente si, quella è una delle pagine più buie della storia americana, nata male e finita peggio. L’operazione fu concepita in modo sbagliato sin dall’inizio con una serie di presupposti che si dimostrarono errati. L’idea che un gruppo di esuli tornando sull’isola potessero alimentare un movimento anticastrista è stata folle. Il lìder maximo allora era ancora molto popolare, aveva un seguito forte, mentre gran parte dei suoi oppositori se ne erano già andati o erano in galera. Pensare che un manipolo di esuli potesse sconfiggere un esercito ben armato e stretto intorno al suo capo non era neanche lontanamente possibile». Ci fu anche un errore nella gestione delle fasi preparatorie? «Certamente sì. La notizia di un attacco trapelò attraverso la stampa, soprattutto da fonti vicine agli esuli di Miami ma anche dai politici cubani in esilio che senza troppa discrezione stavano già preparando un governo di successione. Da un punto di vista militare inoltre l’idea di guadagnare le alture cubane e combattere il regime dalle montagne è stata disastrosa perché Castro per primo guidò la rivoluzione sulle montagne e i suoi uomini conoscevano quei posti come le loro tasche». Quale furono le conseguenze per Washington? «Quando si venne a scoprire che dietro l’operazione c’era la mano della Cia il danno d’immagine fu enorme, specialmente in America Latina, dove le popolazioni la videro come la manovra imperialista di Washington, il cui fallimento altro non fece che rafforzare il mito rivoluzionario di Castro e del suo regime». Quale fu la reazione di Kennedy? «Ricordo che era inferocito con suoi consiglieri. Tanto che quando i consulenti militari e l’intelligence gli dissero di inviare più uomini, aerei e mezzi, lui si oppose senza esitare evitando di peggiorare una situazione già grave». Lei era consigliere di Jfk, cosa ricorda di quei momenti? «La sua grande amarezza, ma anche la convinzione di aver imparato una lezione molto importante da quella tragedia. Cambiò molti consiglieri arruolando esperti, come me o come il fratello Bob, che gli consentivano di avere una visione d’insieme delle questioni internazionali e non il semplice punto di vista di un ministro o di un’agenzia». Come cambiarono le cose? «Radicalmente. Fu quanto accadde a Cuba nel 1961 e spingerlo a non inviare nuove truppe in Indocina - in Laos prima e in Vietnam del sud e Cambogia dopo - al contrario di quanto i consulenti militari gli consigliarono. Si limitò ad attuare le disposizioni di Dwight David Eisenhower limitandosi a rafforzare le strutture difensive presenti, ma niente più. E lo stesso accadde nell’ottobre 1962 con la crisi missilistica di Cuba durante la quale ci fu un braccio di ferro a distanza con il presidente sovietico Nikita Krusciov. In quell’occasione Jfk reagì in modo totalmente diverso rispetto a diciotto mesi prima, esaminando tutte le opzioni sul tavolo, e consultandosi con le Nazioni Unite e gli alleati della Nato. Volle che il Congresso e il popolo americano fossero sempre informati, e lasciò aperto ogni spiraglio per un negoziato. Una strategia che pagò visti i risultati». Francesco Semprini