Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  febbraio 16 Sabato calendario

Il viceministro, lo psichiatra e il vicerè. Il Sole 24 ore 16 febbraio 2008. Il vicerè scivola con disinvoltura negli spazi enormi del palazzo di giustizia ruotando lo sguardo sorridente a destra e a sinistra

Il viceministro, lo psichiatra e il vicerè. Il Sole 24 ore 16 febbraio 2008. Il vicerè scivola con disinvoltura negli spazi enormi del palazzo di giustizia ruotando lo sguardo sorridente a destra e a sinistra. Cancellieri, avvocati, imputati, semplici curiosi, su tutti posa uno sguardo rassicurante. I più preoccupati sembrano gli uomini del suo seguito, una mezza dozzina in tutto, che dietro di lui reggono delicatamente il suo cappotto, la sua coppola, una borsa con le carte processuali, un numero imprecisato di cellulari. Chiude la processione l’ex capo dei vigili urbani di Palermo e un paio di addetti stampa, la trasfigurazione di due simboli che sono la prosecuzione del potere con altri mezzi: la forza pubblica e la parola. Il vicerè si chiama Salvatore (Totò) Cuffaro, presidente della giunta della Regione siciliana fino a quel giorno di gennaio – di cui abbiamo descritto un frammento – in cui, assistito dai suoi cortigiani, si presentò davanti ai giudici del tribunale di Palermo. Regione siciliana e non Sicilia, come sottolinea lo statuto speciale, tradisce già la pomposa aspirazione dei padri fondatori, esaltazione di diversità e separatezza di questa zattera persa nel Mediterraneo con tutti i lembi di terraferma che la circondano, Italia compresa. Se attorno c’è solo liquido, per di più salato, la conquista della terra equivale al dominio sulla natura, sulla marginalità geografica, sugli altri. Totò Cuffaro è la terra, la stessa volontà di potenza cerealicola e rurale del latifondo, dell’aristocrazia: sulla terra corrono e correranno le autolinee dei fratelli Cuffaro, con un regalino di uno dei soci temporaneamente domiciliato a Palazzo d’Orléans che ne ha esteso la concessione fino al 2019; sulla terra sono edificati i suoi alberghi di Palermo e di Raffadali; sulla terra ha coltivato il potere di generoso, bipartisan e longevo assessore all’Agricoltura. Il mare disperde, Cuffaro trattiene. Un istinto racchiuso nei cromosomi dei suoi antenati, gli abilissimi mercanti persiani di Rahal Faddal, Casale eccellente, il nome arabo di Raffadali. Totò è abituato a difendere la sua roba con i denti. E tratta i suoi elettori come figli, compresi i 200 trattoristi inventati dalla riforma agraria del 1950, ancora a libro paga dell’Esa (l’Ente di sviluppo agricolo) all’alba del nuovo millennio. I trattoristi si assumevano, ma di trattori ce n’erano 20. Pezzi d’antiquariato che si muovevano ondeggiando solo quando Totò ordinava di dissodare le campagne dei suoi grandi elettori. «Totò dice a tutti di sì», ricorda l’ex presidente della Regione Peppino Provenzano, che lo ebbe in Giunta come assessore all’Agricoltura. «Totò ha detto a tutti di sì», ripetono i magistrati che hanno indagato sul cuffarismo. «Trasformismo e crispismo» scrivevano gli storici dell’Italia umbertina di fine 800. «Trasformismo e cuffarismo», annoteranno gli storici siciliani. Un approccio pragmatico che antepone il partito e i voti a qualunque altro fine. Non c’è legalità, non c’è Costituzione repubblicana, non c’è istituzione che tenga. Il cemento sono l’amicizia e la fedeltà. «Se stai con me mangi», dice Totò ai suoi. Tutto il resto è accessorio. Gli accordi si possono chiudere con chiunque, l’importante è che portino voti. Stato e antistato sono clienti come gli altri. Alle ultime elezioni i clienti erano diventati 1,3 milioni, tanti sono stati i voti di Totò. Lui è subito corso a Raffadali per stendersi ai piedi della madonna degli ammalati. Pippo Gianni, suo compagno di partito siracusano, versione bohémienne del Casini sciupafemmine, maledice ancora il giorno in cui decise di seguirlo a Santiago de Compostela: 300 chilometri a piedi con Cuffaro che si genufletteva e pregava davanti a ogni cappella votiva. La religione legittima l’esercizio del potere, ti fa amare dal popolo, rende più credibile quello slogan che in campagna elettorale campeggiava su tutte le strade di Sicilia: «Al servizio dei siciliani». Come se il Cuffaro delle autolinee e quello della politica fossero la stessa cosa. Un vescovo-mercante, un mistico eversivo che proprio perché aspira a una purezza irraggiungibile vìola le regole, spartisce, impone accordi. In Sicilia non c’è stato affare sopra i 100mila euro su cui Cuffaro non abbia esercitato il suo potere. Il suo mentore, l’ex pluriministro Lillo Mannino, lo difende con un argomento che sembra un’accusa: «Cosa ha fatto Totò di diverso dagli altri?». Il radiologo Totò ha illustrato al paziente l’esito della lastra: «Non vedete la radiografia? Non conoscete l’eziologia dei cancri siciliani, delle eruzioni infettive, delle metastasi mafiose che divorano l’isola?». Cosa poteva opporre il popolo al medico senza bisturi che contro la siccità invoca l’onnipotenza mariana? Il medico lucra sulla malattia come gli avvocati sui litigi. Cuffaro, in fondo, ha fatto il suo mestiere. E dopo di lui lo farà il suo amico e gemello Raffaele Lombardo, lo psichiatra più algido di tutta la costa jonica. Il democristiano che volle farsi leghista del Sud, forte di un’organizzazione politica scandita da ritmi e logiche militari, sta trattando per succedere all’amico-fratello Totò al soglio di palazzo d’Orléans. Pure lui un abile calcolatore. Ogni sera aggiorna il conto profitti e perdite della sua creatura politica, l’Mpa. Martedì si è congedato dalla Provincia di Catania scoprendo il busto del suo modello politico: il calatino Mario Scelba, ex presidente del Consiglio ed ex ministro degli Interni. Il teorico dell’uso indiscriminato del manganello nella manifestazioni di piazza. Potrebbe essere un’idea per arginare le intemperanze dei disoccupati organizzati o i baby criminali di San Berillo, ma Lombardo, in cuor suo, non torcerebbe un capello a chiunque sia in possesso di una scheda elettorale e un documento di riconoscimento. L’altro antagonista, Gianfranco Micciché, sembra la versione futurista di Orlando furioso. Un pupo a sua volta puparo che si muove a scatti. Un’ipercinesi del corpo e della mente, con slanci temerari e voglia di stupire. Il suo curriculum è scarno come quello del figlio di papà di una grande città del Sud. Papà dirigente del Banco di Sicilia, figlio, anzi figli, bancari (l’altro fratello è top manager di Intesa-San Paolo). Gianfranco è un inquieto, milita in Lotta Continua, ma non si distingue né per le idee né per le letture. Non si laurea e si dice che fin da giovanissimo abbia maturato una idiosincrasia verso la chiesa. La sua religione è quella berlusconiana. Anzi, l’adorazione di Silvio in persona. A Palermo ha nemici giurati, la maggior parte proprio in Forza Italia. Rara capacità politica di creare consenso. Come viceministro del Governo Berlusconi passerà alla storia per lo strano andirivieni di un suo amico con le tasche piene di polverina bianca. Come presidente dell’Assemblea regionale siciliana sarà ricordato per le numerose assenze dall’aula e, quando c’era, per i suoi silenzi. Disponeva di un armamentario legislativo distillato della sapienza greca e araba, ma non l’ha mai usato per complicare la vita a Totò. Tranne poi piantare la coltellata politica a sangue freddo. Gianfrà dice che bisogna cambiare metodo, altrimenti la Sicilia affonda. Questo lo capisce pure un bambino, ma lui è così guascone da volerci provare. Speriamo che prima o poi qualcuno non gli ricordi la frase che ne «I Viceré» Federico De Roberto mette in bocca al Duca di Oragua, deputato della destra e maestro di clientelismo: «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri». Mariano Maugeri