Il Sole 24 ore 21 febbraio 2008, Rita Fatiguso, 21 febbraio 2008
Tante Chinatown, una sola rete. Il Sole 24 ore 21 febbraio 2008. In queste ore la Chinatown milanese è in ansia per il ventilato trasloco del commercio all’ingrosso dal centro alla periferia, nell’Asian Trading Milan Center o nei capannoni di Lacchiarella o chissà dove
Tante Chinatown, una sola rete. Il Sole 24 ore 21 febbraio 2008. In queste ore la Chinatown milanese è in ansia per il ventilato trasloco del commercio all’ingrosso dal centro alla periferia, nell’Asian Trading Milan Center o nei capannoni di Lacchiarella o chissà dove. Ma a tenere i negozianti con il fiato sospeso è l’effetto domino dell’ennesimo crack che minaccia i risparmi di una comunità incline a finanziarsi al suo interno. A Roma, una società di trasferimento di denaro con clienti in prevalenza asiatici, finita nel mirino dei controlli, sta generando danni da almeno 70 milioni di euro. Uno tsunami economico che lambisce inesorabilmente le altre Chinatown, cementate da un singolare impasto di parentele e interessi economici. Un fiume di rimesse, secondo solo a quello attribuibile ai rumeni nel 2006, dà l’idea dello stato di salute economico di una comunità in crescita, la prima per nuove imprese create nel 2007, la seconda per imprenditori stranieri censiti da Movimprese, che viaggia sulle gambe scattanti delle generazioni più giovani. Hanno l’argento vivo addosso i gemelli Hu, Michele e Francesco, 26 anni, studi in Bocconi: trovarli al desk della loro società di assicurazioni in via Paolo Sarpi a Milano è come vincere un terno al lotto. Li cercavamo per sapere che aria tira nelle Chinatown, ci hanno spiegato di essere, rispettivamente, a Padova e Bologna. Da parenti, per affari. Buon segno. Cinesi di seconda generazione, originari di Yuhu, città dello Zhejiang, regione di When Zhou, di medio calibro per le dimensioni delle megalopoli cinesi, dove le case oggi (il merito è sempre delle rimesse) costano più che nel centro di Milano, fanno parte di una delle famiglie che contano nella Chinatown milanese. L’attività è ampia, dalla richiesta dei connazionali che dal Veneto vogliono acquistare immobili di pregio a Milano, alle polizze assicurative, alla vendita di un ristorante a Reggio Emilia o di un capannone a Prato, nella zona industriale dell’Osmannoro. Sono la prova, i fratelli Hu, che l’Italia è ormai una grande Chinatown, grazie alle ramificazioni tra le diverse comunità, all’intraprendenza delle nuove leve, all’apertura della Cina verso le comunità immigrate (l’ambasciatore Dong Jingi, in partenza per la sede di Berna, si è schierato al loro fianco, per la prima volta, durante la rivolta milanese dello scorso aprile contro l’introduzione della zona a traffico limitato). Chi emigra non è più un reietto, i viaggi per turismo sono più semplici, grazie alle carte di credito China Unionpay, utili a superare i tetti di trasferimento all’estero di contanti e grazie al recente accordo con Global Refund, che permette il recupero delle tasse sugli acquisti. Una Chinatown capillare, con la testa a Nord-Est, la nuova porta d’ingresso di merci e persone dai Balcani. Non a caso i fratelli Hu si lasciano alle spalle la folla brulicante dei portatori di carrelli a un euro al collo di via Paolo Sarpi che è, di fatto, la piattaforma all’ingrosso di merci cinesi più grande del Sud Europa: la vera calamita del business sta da un’altra parte e sono le imprese cinesi ad attivarla. Una scorsa alla mappa di quelle censite da Movimprese a fine 2007 ne segnala, in cifre assolute, 29.416: è la seconda etnìa alle spalle di quella marocchina con 42.416. In alcune province come Brescia, Reggio Emilia, Prato, Rovigo, Venezia, Firenze, Ascoli, le attività cinesi sono al primo posto. A Bologna, Biella, Milano, Mantova, Padova, Roma, Teramo e Trieste i cinesi sono ben piazzati, come pure a Verona, Rimini, Savona, Sondrio, Taranto, Vicenza, Treviso. A Mestre i negozi cinesi hanno invaso l’area della stazione centrale, a Padova, nella zona industriale la loro presenza è evidente. «A Vicenza – rivela un avvocato che chiede espressamente di non essere citato – hanno letteralmente svuotato una fabbrica di scarpe per farne un capannone utile non si sa bene per quali traffici. Dall’esterno, però, tutto sembra uguale a prima». Un industriale di una località vicino a Montebelluna cita l’incauto affitto di un capannone da parte di un collega che si è poi ritrovato decine di persone alla catena di montaggio di un’industria tessile, tutti clandestini. «In realtà – dice Michele Hu che, nel frattempo, è andato e tornato anche da Prato – raccogliamo molte lamentele proprio da città e paesi del Nord-Est dove i cinesi non sono ben accolti, c’è ostilità. Ma quell’area, grazie al traffico con i Paesi di confine è il motivo principale che ci spinge a fare affari in Veneto e Friuli. Dalla Slovenia, dall’Austria, dall’ex Jugoslavia è un via vai di furgoni». A Prato, l’intera città ha un’impronta della cultura cinese. Un vero e proprio distretto parallelo prospera nella zona industriale, che i frequenti blitz delle forze dell’ordine stanno spingendo verso le Marche e l’Abruzzo. Merci, vestiti, scarpe, pelletteria che prende la strada dei negozi della Chinatown milanese, spesso di domenica, giornata libera, quando il negozio è chiuso. Partono anche le torte nuziali confezionate a Prato e spedite su furgoncini per suggellare con feste di matrimonio-lampo nuovi sodalizi imprenditoriali tra famiglie. Nuove guanxi, le relazioni amicali, quelle che contano davvero nel tempo. Roma, con i suoi negozi in zona Piazza Vittorio, nota ormai come Es-qui-lin, solo in parte delocalizzata nei depositi oltre il raccordo anulare, la comunità è potente grazie ai legami tra famiglie e raccoglie imprese cinesi consolidate, con rapporti stretti con l’Oriente. Ma è a Nord-Est che si registra la crescita più significativa. Jiang Da Li dirige dal 2001 Europe Chinese News, un buon termometro con le sue copie diffuse porta a porta per capire dove vanno le Chinatown italiane. Jiang conferma che le pagine dedicate ad attività di import-export in via Cilea e dintorni non sono una quinta di cartone. Stesso discorso per Treviso, Bologna, Brescia. Lo stillicidio di arrivi cinesi inizia a manifestarsi anche al Sud. A Bari, città a vocazione mercantile, i cinesi ormai stanno soppiantando i commercianti al dettaglio, a due passi dall’Università. Cinquanta, sessanta licenze sono già passate di mano e in ogni paesino della Puglia c’è almeno un negozio con le lanterne rosse in bella mostra. Gli affari girano, Pechino cresce. Le rimesse vengono utilizzate per investire in Borsa, nelle assicurazioni, per diversificare rispetto all’immobiliare, ad alto rischio di truffa. Ciò che resta in Italia, in fondo, sono solo le briciole. Rita Fatiguso