Corriere della sera 21 febbraio 2008, Gian Antonio Stella, 21 febbraio 2008
PIANURA AI TEMPI DEL COLERA
Corriere della sera 21 febbraio 2008.
Dalle viscere puzzolenti delle discariche campane, insieme con i rifiuti tossici, continuano a uscire sorprese. Come una lontana legge regionale che, dissepolta, fa retrodatare l’emergenza spazzatura al 1973: cioè 35 anni fa. E indovinate da cosa era stata motivata, quella legge?
Dal colera e da una rivolta a Pianura. Prova provata che il nostro è un Paese più smemorato dello smemorato di Collegno. Quanto siano lunghi trentacinque anni è facile da dirsi.
Ne bastarono ventuno a Gengis Khan per unificare le tribù mongole, trascinarle alla conquista dell’Asia, arrivare ai Balcani e fondare il più grande impero della storia. Ne bastarono ventisette a Wolfgang Amadeus Mozart, morto appunto trentacinquenne, per scrivere 22 opere liriche, 12 opere sacre, 17 sinfonie e un’altra infinità di concerti e sonate e duetti. Ne bastarono 32 a Pio IX per marcare il pontificato più lungo dopo San Pietro.
Bene, in quel lontano 1973 in cui erano ancora vivi Julius Evola e Aldo Palazzeschi, Beppe Savoldi vinceva la classifica marcatori davanti a Paolino Pulici e a Sanremo trionfava Peppino Di Capri, Napoli venne colpita dal colera. Era la fine di un agosto torrido. Il presidente del Consiglio Mariano Rumor declamava che i problemi del Mezzogiorno erano al primo posto nella sua agenda, le cozze morivano asfissiate negli allevamenti legali e in quelli abusivi, la città non aveva ancora smaltito la rabbia che a metà luglio, nell’incubo d’una crisi energetica, aveva scatenato addirittura una serrata dei panificatori seguita da medievali assalti ai forni. E quando furono segnalati i primi due morti dilagò il panico.
Il 30 agosto i decessi erano già sette, i ricoverati negli ospedali oltre centocinquanta, gli americani cominciavano a vaccinare la gente con enormi siringoni. E mentre nel resto d’Italia gli anti-democristiani sorridevano del fatto che per l’Organizzazione mondiale della sanità l’epidemia era causata da un vibrione di tipo Ogawa (con immediato gioco di parole su quello che era allora il viceré doroteo: «’o Gava») in città e nei dintorni divampava la protesta con guerriglia nelle strade, incendi, attacchi alle farmacie. Ed ecco infine arrivare le prime disposizioni igieniche: vietato vendere frutti di mare, vietato fare il bagno lungo tutto il litorale, vietato abbandonare l’immondizia per strada.
I giornali, memori di quanto era accaduto nella storia, ripubblicavano le cronache della spaventosa epidemia di colera del 1884 (settemila morti) e di quella ancora più apocalittica del 1836/1837, quando le vittime erano state 18 mila. Il ministro della Sanità, Luigi Gui, arrivava sotto il Vesuvio dicendo di essere stato informato di quanto accadeva dalla radio e mentre il capo dello Stato Giovanni Leone faceva visita ai malati al «Cotugno», una folla di curiosi, come trent’anni dopo avrebbe ricostruito sul «Diario» Eugenio Lucrezi, assisteva dal lungomare «alla deriva di quintali di cozze senza padrone, sradicate dai tralicci da chissà chi, che fluttuavano libere su e giù per Mergellina e in balìa delle correnti» mentre i fotografi immortalavano gli allevamenti di frutti di mare dove aggallavano i topi morti.
Sul Mattino, riapparve anche un pezzo della combattiva lettera aperta che la grande Matilde Serao aveva indirizzato in quel 1884 al capo del governo Agostino Depretis: «La strada dei Mercanti, l’avete percorsa tutta? Sarà larga quattro metri, tanto che le carrozze non vi possono passare, ed è sinuosa, si torce come un budello; le case altissime la immergono durante le più belle giornate, in una luce scialba e smorta: nel mezzo della via il ruscello è nero, fetido, non si muove, impantanato, è fatto di liscivia e di saponata lurida, di acqua di maccheroni e di acqua di minestra, una miscela fetente che imputridisce. In questa strada dei Mercanti, che è una delle principali del quartiere Porto, v’è di tutto: botteghe oscure, dove si agitano delle ombre, a vendere di tutto, agenzie di pegni, banchi lotto; e ogni tanto un portoncino nero, ogni tanto un angiporto fangoso, ogni tanto un friggitore, da cui esce il fetore dell’olio cattivo, ogni tanto un salumaio, dalla cui bottega esce un puzzo di formaggio che fermenta e di lardo fradicio ». E tutti a dire: ecco, anche oggi è come allora! Basta! Basta! Era questa l’aria che tirava, quando scoppiarono le rivolte di piazza contro le discariche, a partire da quella di Pianura dove la gente organizzò esattamente come oggi furenti blocchi stradali. E fu nella scia di questi moti che il Consiglio Regionale della Campania (nel quale sedeva sui banchi comunisti il giovane Antonio Bassolino) decise di votare una «dichiarazione di urgenza ». E di varare una legge, la numero 23 del 19 novembre 1973, che portava un titolo quasi incredibile, a rileggerlo oggi: «Finanziamenti regionali per la costruzione, ampliamento e completamento di impianti per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani».
E non si trattava solo, come ricorda Mario Simeone, già capo dell’Ufficio Stampa del Consiglio Regionale, di buoni propositi: per la sua attuazione venne previsto infatti uno stanziamento di 30 miliardi di lire, con i quali i comuni o loro consorzi avrebbero dovuto «costruire i necessari inceneritori nel quadro di un piano regionale di cinque anni di localizzazione razionale degli impianti». All’articolo 9, con minaccioso decisionismo, c’era scritto: «Qualora i Comuni o Consorzi non presentino i progetti esecutivi o non completino le opere nei termini stabiliti, provvede direttamente la Regione alla realizzazione degli impianti».
All’opera! All’opera! Cinque anni dopo, al momento del bilancio, non era stata investita seriamente una sola lira.
Da allora, mentre si accavallavano emergenze ad emergenze, si sono succeduti 5 presidenti della Repubblica, 9 legislature, 29 governi. E, come se quella legge non fosse mai stata fatta, si è sempre ricominciato da zero.
Gian Antonio Stella