Corriere della sera 20 febbraio 2008, Maurizio Caprara, 20 febbraio 2008
«Di comunismo sapeva poco. E snobbò il 68». Corriere della sera 20 febbraio 2008. Le immagini che si custodiscono nella memoria sono diverse dalle telefoto dei telegiornali
«Di comunismo sapeva poco. E snobbò il 68». Corriere della sera 20 febbraio 2008. Le immagini che si custodiscono nella memoria sono diverse dalle telefoto dei telegiornali. Per quanto stagionate, talvolta contengono frammenti di realtà più efficaci. Può essere così quando riguardano un personaggio, entrato nella storia, conosciuto in tempi nei quali a pochi italiani era concesso di parlargli di persona. Di Fidel Castro, che incontrò a Cuba nel 1967, Rossana Rossanda, comunista eretica e allergica alle abiure, conserva il ricordo di un dirigente «assai poco formato nella tradizione del movimento operaio». Di un uomo «molto caloroso, dotato di carisma» e tuttavia contrassegnato da «caratteri di caudillismo », ossia da tratti autoritari che non sono l’ideale per chi dichiara di combattere in nome dell’uguaglianza. Di un capopopolo che, almeno a prima vista, ignorava il fatto che a far assassinare Lev Trotzki, 27 anni prima, fosse stato Stalin. Fino ad apparire stupito dal sentirselo dire. Chi è Fidel Castro? «Non è facile dirlo. Quello che conobbi io era un leader assai poco formato nella tradizione del movimento operaio», ci aveva raccontato Rossana Rossanda prima della rinuncia di Fidel alla carica di Comandante in capo». E in quale tradizione si era formato? «Era legato a certi ideali indipendentisti latino americani, a José Martì, a filoni fortemente rancorosi verso gli Stati Uniti, i quali avevano ritenuto Cuba una colonia. C’era un detto: "Povero Messico, troppo lontano da Dio e troppo vicino agli Usa"». Castro sarebbe stato innanzitutto un indipendentista, prima che un comunista? «Veniva dagli anni della decolonizzazione. Allora, e ci ho creduto anch’io, circolava l’idea che tra Usa e Urss ci potesse essere spazio per un terzo polo. Che il Vietnam, Cuba e la Cina avrebbero costituito una via d’uscita dall’alternativa "O stai con gli Usa o con l’Unione Sovietica". In questo clima lo conobbi». Lei incontrò Castro a Cuba nel 1967, come ha spiegato nel libro «La ragazza del Secolo scorso». Che cosa la colpì di lui? «Era un tipo di dirigente diverso da quelli della sinistra europea, sia la comunista sia la socialista. Molto caloroso, dotato di carisma. Molto amato, su questo non ci piove». Da che cosa se ne accorse? «Girammo l’isola di Cuba a bordo di quattro o cinque jeep e guidava la prima senza essere coperto. Non era preoccupato che qualcuno potesse sparargli addosso. A Guantanamo ci imbattemmo in un’orribile tempesta, riparammo tutti sotto un tetto di legno. Se avessero voluto farlo fuori, avrebbero potuto. Forse intorno esisteva un servizio di protezione non visibile. Ma Castro non girava scortato come oggi gira il Papa». Lei era andata all’Avana senza dirlo al Pci, eppure ne era una deputata. Perché? «Perché ero una già fuori non dal partito, ma da qualsiasi incarico. Fui invitata a manifestazioni culturali. Non ero abituata a chiedere permessi al Pci se partivo, anche quando andavo da Jean-Paul Sartre a Parigi ». Armando Cossutta non gradì quel viaggio da Castro. «Mi rimproverò, sebbene non in modo virulento. Gian Carlo Pajetta mi fece scrivere per Rinascita ». Un articolo che fece arrabbiare Marcella Ferrara, pilastro della rivista. Anche perché lei aveva riportato il ritornello «Que tiene, que tiene, que tiene Fidel, que los americanos no pueden con el»?. «Marcella mi fece un’obiezione di eleganza. La risposta a quel ritornello era: " Cojones" ». Poi fu lei a ripensarci: come spiegherebbe ai giovani filocubani di oggi perché il Manifesto, gruppo che contribuì a fondare poco più tardi, non fu mai affascinato dal «líder máximo»? «Non è che l’essere un capo di Stato ci creasse tante affinità. Eravamo un gruppetto libero e però minoritario, con qualche spocchia minoritaria. A parte noi un po’ vecchiotti, allora quarantenni, i ragazzi del Manifesto avevano immagini di Che Guevara e Ho Chi Min, qualcuno gridava il nome di Rosa Luxemburg, ma nessuno ha mai inneggiato Castro. Non era una figura mitica con gli occhi che guardano in avanti». Altro motivo per le distanze? «Il suo giudizio sul 1968 fu molto prudente più che positivo. In Messico ci fu una rivolta degli studenti, la polizia sparò. Che io ricordi, Castro non condannò. Forse il Messico era l’unico posto dal quale si poteva arrivare a Cuba. In più, Fidel fu molto freddo verso il maggio francese». Come mai, a suo avviso? «La raccolta di zucchero che doveva salvare l’isola era fallita. Gli elementi che avevano retto Castro fino ad allora, anche di utopia, caddero. Non voleva infastidire de Gaulle?». Davvero Castro apprese da lei e dal suo compagno K. S. Karol che Trotzki morì per volontà di Stalin? «Non lo sapeva, pur avendo vissuto in Messico, Paese nel quale Trotzki fu ucciso. Restammo senza fiato. Fu al compleanno di Castro, in una colazione. Eravamo in dieci, 15. Non sapevano nulla della storia sovietica. Castro diceva: "Trotzki? Stalin? No, non è possibile..."». Editore Fidel Castro con Giangiacomo Feltrinelli Maurizio Caprara