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 2008  febbraio 20 Mercoledì calendario

Il mondo salvato dai contadini. l’Unità 20 febbraio 2008. Ecco un bel paradosso: gli affamati del mondo sono in grande maggioranza contadini

Il mondo salvato dai contadini. l’Unità 20 febbraio 2008. Ecco un bel paradosso: gli affamati del mondo sono in grande maggioranza contadini. Secondo quanto si legge in un documento della Fao del 2006: «agli inizi del terzo millennio, tre quarti degli 852 milioni di persone che soffrono la fame nel mondo, vivono in zone rurali e dipendono dall’agricoltura per la propria sopravvivenza. Sono per lo più contadini senza terra, o con appezzamenti così piccoli o così poco produttivi, che non permettono di provvedere al sostentamento delle loro famiglie». Un rapporto appena pubblicato dal Wuppertal Institute tedesco («Commercio e agricoltura») sottolinea inoltre come questi contadini stiano diventando sempre più poveri e siano costretti a lasciare le campagne per andare a ingrossare le file dei diseredati che vivono in città. Il fenomeno naturalmente non è nuovo. Anzi, come ha messo in evidenza lo storico Eric Hobsbawm «il mutamento sociale più notevole e di più vasta portata della seconda metà del secolo (XX) è la morte della classe contadina». I contadini dell’Europa e del Giappone hanno smesso di coltivare la terra già negli anni 60 e 70 del secolo scorso. Nel sud del mondo, invece, la società è ancora strettamente legata all’agricoltura. Tanto che dei 3 miliardi di contadini oggi presenti sul pianeta, il 96% si trova proprio in queste aree. Tuttavia, si stanno impoverendo a un ritmo tale che l’abbandono delle campagne sta diventando la norma. Francisco Hidalgo Flor, membro del Sipae, un gruppo di ricerca che si occupa di politica agraria in Ecuador, ad esempio racconta agli estensori del rapporto «Commercio e agricoltura» come nel suo paese. Una percentuale elevata dell’agricoltura ”campesina” è stata abbandonata nelle mani dei più poveri, delle donne, degli anziani, dei giovani. Vanno via, ma spesso non trovano lavoro: la Fao ha dimostrato che il numero di persone riassorbite negli impieghi alternativi è inferiore al numero delle persone espulse dalla terra. Eppure un ristretto numero di grandi aziende agricole industriali prosperano e si arricchiscono. Sono proprio queste aziende a mettere in ginocchio i contadini. Producono tanto e hanno un enorme potere di mercato. La novità di questi ultimi anni è la concentrazione verticale: l’azienda non controlla più solo un punto della catena produttiva alimentare, ma punti diversi. Il gruppo Charooen con sede in Thailandia gestisce, ad esempio, impianti nei settori del bestiame, dell’ortofrutta, dei cereali, dei mangimi, dei discount, dei supermercati e dei fast food così compra il pollo dal proprietario dell’allevamento che, guarda caso, è lui stesso. La globalizzazione del commercio ha fatto il resto. Le grandi aziende, portando le varie attività nei luoghi dove i costi del lavoro sono minimi, riescono a immettere sul mercato beni a prezzi talmente bassi che i contadini non riescono a competere. E il mercato è ovunque. L’esempio classico che riporta chi si occupa di questo fenomeno è quello dell’Indonesia. Nel 1992 produceva soia a sufficienza per soddisfare il mercato interno. L’apertura del mercato alla soia a basso costo proveniente dagli Stati Uniti ha distrutto la produzione locale. Oggi il 60% della soia consumata in Indonesia è imprtata e l’impennata dei prezzi dei mesi scorsi ha prodotto una crisi economica. Ebbene, si potrebbe dire (e qualcuno lo fa): forse i contadini sono destinati a sparire dal pianeta. Forse si può produrre la quantità di cibo necessario solo impiegando il 2-3% della popolazione. Ma i contadini, o almeno alcuni di essi, non ci stanno. Secondo Silvia Pérez Vitoria, economista, autrice de – Il ritorno dei contadini”, sono 500 milioni i «vecchi» lavoratori della terra: bracciati o agricoltori che non ricorrono a tecnologie industriali. Questi contadini hanno cominciato a riunirsi in gruppi, a sostenersi vicendevolmente, a fare fronte comune nella ricerca di una agricoltura sostenibile. Via Campesina, ad esempio, è un movimento che coordina organizzazioni di agricoltori, piccoli produttori, braccianti, donne che lavorano la terra in Africa, America, Europa e Asia. nato nel 1993 e rivendica la paternità del termine «sovranità alimentare» con il quale ci si riferisce al diritto di produrre il cibo nel proprio territorio, organizzando la produzione e il consumo in base ai bisogni delle comunità locali. In Africa dal 2000 è attiva Roppa, la Rete delle organizzazioni contadine e dei produttori agricoli dell’Africa occidentale, il cui scopo principale è «promuovere e difendere i valori di un’agricoltura contadina efficiente e sostenibile, al sevizio delle imprese agricole a carattere familiare», il che, in sostanza, vuol dire cercare di dialogare con il potere politico per non essere schiacciati dalla grande produzione. In Brasile l’1,6% dei proprietari terrieri controlla la metà dei campi coltivabili. Lì, negli anni Ottanta, è nato il movimento dei Sem Terra. Tutti i lavoratori agricoli «senza terra», come dice il nome del movimento, si sono organizzati per chiedere la riforma agraria e hanno occupato i latifondi inutilizzati. Negli ultimi anni 350mila famiglie si sono insediate su terre abbandonate dove hanno dato vita a piccole agroindustrie, cooperative di produzione di semi biologici e cooperative di credito, ma hanno anche creato scuole per i loro figli e per la formazione continua. I India sono nate cooperative che producono e vendono semi biologici ai contadini liberandoli dall’obbligo di comperare dalle multinazionali. Da questi movimenti di persone spazzate via dalla storia potrebbe venire la soluzione per salvare il pianeta? Si domanda Silvia Perez in modo provocatorio. Il fatto è che il sistema odierno produce storture evidenti, dal fatto che le moderne tecniche agricole riducono il numero delle specie favorendo solo le più produttive, al fatto che hanno conseguenze drammatiche sull’ambiente. Ma la più eclatante è che, nonostante produciamo quantità di cibo come mai nella storia , milioni di persone muoiono di fame. L’esempio di come questo avvenga è sotto i nostri occhi proprio in questi giorni. La Fao ha dichiarato che la produzione di cereali, secondo le previsioni, dovrebbe aumentare nel 2008. Tuttavia, i prezzi internazionali rimangono eccessivamente alti. Basti pensare che a gennaio di quest’anno il prezzo del grano era più alto dell’83% rispetto all’anno passato. A pagarne le spese sono come al solito i poveri. Nei paesi a basso reddito si prevede che le importazioni dei cereali saranno più care del 35%. Ma quali sono le cause del fenomeno? Secondo gli esperti, il rialzo dei prezzi è innescato dal livello minimo raggiunto dalle scorte alimentari, dalla siccità e dalle inondazioni connesse con il cambiamento climatico, dall’elevato prezzo del petrolio e dalla crescente domanda di biocarburanti. Ma Via Campesina incalza: i prezzi aumentano anche perché le compagnie transnazionali monopolizzano il mercato. Senza considerare che tra le cause del cambiamento climatico e del degrado ambientale alla base dei rincari c’è proprio L’agricoltura industriale che consuma più energia, più acqua e inaridisce i terreni. Perfino le misure intraprese dai governi per fermare l’influenza aviaria possono essere lette da più punti di vista. Ad esempio Grain, una organizzazione non governativa internazionale che promuove una gestione sostenibile della biodiversità in agricoltura, legge l’abbattimento di 3,7 milioni di uccelli nello stato indiano del Bengala occidentale per evitare il diffondersi dell’epidemia, come un favore fatto dal governo ai grandi produttori di pollame. Vale la pena riflettere. Cristana Pulcinelli