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 2008  febbraio 19 Martedì calendario

Il partito di Cosa Nostra. Il Manifesto 19 febbraio 2008. La fenomenologia mafiosa da sempre suscita interesse e attenzione non soltanto nell’immaginario popolare, segnato dall’efferatezza delle manifestazioni dell’ordine criminale e dalle innumerevoli rappresentazioni letterarie e cinematografiche della sua "geometrica potenza", ma anche negli studi accademici

Il partito di Cosa Nostra. Il Manifesto 19 febbraio 2008. La fenomenologia mafiosa da sempre suscita interesse e attenzione non soltanto nell’immaginario popolare, segnato dall’efferatezza delle manifestazioni dell’ordine criminale e dalle innumerevoli rappresentazioni letterarie e cinematografiche della sua "geometrica potenza", ma anche negli studi accademici. Analisi e riflessioni più o meno compiute sulla natura della mafia hanno rappresentato un filone di ricerca via via più cospicuo all’interno delle scienze sociali, impreziosito anche da contributi di alcuni padri nobili della scienza politica e della sociologia. In questo fiorire di studi si sono presentati modelli interpretativi e schemi di analisi differenziati, talvolta fieramente contrapposti gli uni agli altri. il caso, in particolare, di una frattura metodologica di portata più ampia, manifestatasi anche nell’ambito più circoscritto degli studi sui fenomeni criminali, tra l’approccio di matrice economica e quello di impronta sociologica o, meglio, "culturalista". Il primo sottolinea la centralità dell’attore sociale - il mafioso, in questo caso - rappresentato come un agente dotato di un insieme coerente di preferenze e capace di perseguire razionalmente, attraverso un calcolo massimizzante, i propri fini. Il secondo riconduce invece la spiegazione dell’agire mafioso - e delle sue rappresentazioni sociali e culturali - a un repertorio di fattori causali che comprendono norme sociali, processi di socializzazione, codici di interpretazione, meccanismi di produzione simbolica. Il lessico dei pizzini In questa prospettiva si colloca l’accurata analisi di Marco Santoro, che nel libro La voce del padrino (Ombre corte, pp. 223, euro 19) fornisce un contributo importante alla costruzione di una sociologia culturale della mafia emancipata dagli schemi funzionalisti, che non legge nell’agire mafioso l’espressione di codici comportamentali calati dall’alto, simili a una rete inestricabile e soffocante di norme e valori ereditati dal passato e inesorabilmente interiorizzati. Quello mafioso va interpretata piuttosto come un "repertorio culturale", un insieme articolato e in divenire di storie e narrazioni, conoscenze e modi di pensare, cui tanto i protagonisti che gli osservatori esterni - e tra questi gli stessi studiosi della mafia - continuamente attingono per dare significato alle loro scelte ed esperienze, giustificandole a sé e agli altri. Non è soltanto un "sistema" culturale, quindi, a sostenere l’universo mafioso, ma anche una gamma di codici di decifrazione simbolica della realtà che strutturano l’universo di senso di tutti quelli che hanno a che fare con l’oggetto culturale storicamente chiamato mafia, indipendentemente dalle forme organizzative e dalle strategie operative cui essa contestualmente e localmente attinge. Questo sistema simbolico e valoriale non è fisso e immutabile. Il repertorio culturale mafioso viene ripensato e incessantemente arricchito attraverso l’impiego e la lettura che ne viene riproposta quotidianamente, all’interno così come all’esterno dei confini che demarcano i territori di diretta espressione del potere mafioso. Viene da pensare alla cronaca di queste ultime settimane, all’incredibile "dizionario" del buon mafioso, trovato nel covo del boss Salvatore Lo Piccolo, con il quale il figlio Sandro ricostruiva il senso e la portata delle espressioni verbali più spesso utilizzate nei "pizzini" di Provenzano, e nell’elencare e sistematizzare i termini e le sgrammaticature del boss latitante le integrava con nuove espressioni e giudizi sulle loro potenzialità di applicazione. O alla vicenda processuale di Cuffaro, che nell’avvicendarsi di possibili imputazioni penali ha dimostrato la centralità del "vocabolario mafioso" utilizzato dall’ordinamento come strumento di potenziale legittimazione, politicamente e culturalmente orientata, di un ordine simbiotico rispetto al sistema mafioso. L’egemonia criminale Coerentemente con l’impostazione culturalista, in questa attività di reidentificazione la stessa elusiva natura del fenomeno mafioso prende nuova forma, nuova linfa vitale, si converte in una struttura di motivazioni, prassi e rituali che traggono dalla realtà così decifrata la loro ragion d’essere, e che quella stessa realtà contribuiscono a modificare con i loro giudizi riflessivi non meno che con le loro azioni. Non è un caso che in un denso capitolo del volume ci si soffermi proprio sulle forme di mediazione comunicativa mafiosa: i "pizzini" sequestrati nel covo di Provenzano sono sottoposti ad un’analisi ermeneutica che ne evidenzia il retaggio cognitivo implicito, il continuo richiamo a un codice interpretativo che accomuna mittente e destinatari, ma anche la dimensione velatamente politica del vocabolario impiegato dal padrino. La chiave analitica di lettura del fenomeno criminale costruita da Santoro si colloca dunque agli antipodi dell’antropologia utilitarista postulata dalla teoria economica della mafia, divenuta negli ultimi anni pressoché egemone. Si tratta di una mappa concettuale più adatta a cogliere la dimensione affettiva, cognitiva e simbolica dell’universo mafioso, a prezzo di un una rinuncia al rigore formale e alle generalizzazioni universalizzanti cui conduce l’applicazione dei modelli economici. L’approccio culturalista sviluppa le potenzialità esplicative di un’ulteriore raffigurazione simbolica della mafia: all’immagine della mafia come impresa o industria della protezione privata, caratteristica della teoria economica, si sostituisce infatti la rappresentazione della mafia come fenomeno politico, o meglio come "forma storica, culturalmente specifica e condizionata, di istituzionalizzazione dell’attività politica". Nella sua contrapposizione allo stato liberaldemocratico e ai suoi presupposti procedurali, ma anche nella ricerca di aree di simbiosi e di collusione coi poteri pubblici, la mafia si contraddistingue in quanto espressione di un potere personalistico che sperimenta attraverso la manipolazione - perlopiù non intenzionale - dei codici linguistici e comunicativi un formidabile strumento di affermazione e consolidamento. In ciò simile, peraltro, agli stati moderni, dei quali forse ci aiuta a disvelare alcuni lati oscuri, dimensioni potenzialmente criminali. Come ci ricorda lo storico Charles Tilly, opportunamente richiamato dall’autore, le funzioni protettive degli stati in fondo appaiono spesso indistinguibili, se non facendo ricorso a nozioni scivolose come quella di legittimità, da formule estorsive degne di un racket criminale: se la mafia riuscisse ad estendere il proprio dominio sull’intera Sicilia, i suoi capi sarebbero considerati, all’interno così come all’esterno, autorità legittime. Le espressioni culturali della mafia acquistano dunque un’immediata valenza politica, perché nelle relazioni intessute ad ogni livello nel sistema politico e sociale, non meno che tra gli affiliati, quella che entra in gioco è in ultima analisi una struttura di governo delle relazioni sociali, attraverso la quale viene arbitrariamente concessa o negata la salvaguardia di diritti economici e politici. Parole condivise L’approccio critico e riflessivo sviluppato nel volume rende conto della "complessità della mafia", qualità evidente nelle molteplici sfaccettature con cui questa si manifesta e viene costantemente reinterpretata dai suoi molti artefici, vittime ed osservatori. Il lettore finisce così per divenire anch’egli partecipe dello sforzo di decodifica dei modelli simbolici e culturali con cui la mafia è stata di volta in volta sottoposta ad analisi, per stigmatizzarla, giustificarla, o semplicemente spiegarla. Attingendo criticamente ad altre prospettive analitiche per elaborare una sintesi originale, il libro di Santoro rafforza l’impressione che la pluralità di paradigmi interpretativi disponibili non sia necessariamente un limite, ma piuttosto un fattore di potenziale arricchimento dell’analisi. Se è vero, come sostiene l’autore, che la mafia può essere reidentificata come istituzione politica (non statuale), parimenti si potrebbe sostenere che lo stato può essere reidentificato come istituzione economica avente tratti in comune con l’impresa mafiosa. L’abilità dello studioso consiste allora nella capacità di costruire ponti, e non muraglie, tra i diversi approcci. Il padrino, per parafrasare il titolo del volume, sembra avere molte voci, tra loro spesso discordanti a seconda dell’orecchio che le ascolta. E il tentativo di trovare, se non una sintesi, almeno un linguaggio condiviso rappresenta forse la sfida principale per la futura ricerca in questo campo. ALBERTO VANNUCCI