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 2008  febbraio 15 Venerdì calendario

Il rapido contropiede della globalizzazione. Il Manifesto 15 febbraio 2008.  constatazione diffusa che i problemi sociali più gravi di quest’alba del XXI secolo sono tali principalmente perché non disponiamo degli strumenti politici con cui affrontarli

Il rapido contropiede della globalizzazione. Il Manifesto 15 febbraio 2008.  constatazione diffusa che i problemi sociali più gravi di quest’alba del XXI secolo sono tali principalmente perché non disponiamo degli strumenti politici con cui affrontarli. Le istituzioni politiche entro cui si svolge la nostra esistenza sono per lo più confinate entro le frontiere degli stati-nazione, mentre le questioni più pressanti che ci si parano davanti - dalle migrazioni delle merci e dei capitali alle migrazioni delle persone in carne e ossa, dalle crescenti difficoltà di approvvigionamento energetico alle catastrofi sociali generate da eventi climatici estremi - trascendono, e di molto, quelle frontiere. Intendiamoci: la «globalizzazione» è ben lungi dall’essere una realtà, salvo che nelle visioni un po’ naif di quanti credono che essa si misuri col numero di persone che salgono su un aereo o con le tonnellate di merci che si trasportano da un luogo all’altro del pianeta. però indubbio che molti dei problemi rispetto ai quali gli stati manifestano palesemente la loro inadeguatezza - a cominciare dalla sicurezza, privata e sociale - costituiscono il precipitato locale di fenomeni che prendono corpo su scala globale. Una scala su cui, invece, operano con disinvoltura poche centinaia di imprese transnazionali, i cui interessi sempre più spesso si pongono in contrasto con quelli degli abitanti dei Paesi che ricadono nell’orbita dei loro affari. Le squadre in campo Il calcio offre un esempio da manuale di queste contraddizioni. Praticamente fin dal giorno in cui ha conquistato un pubblico di massa, questo sport è stato, in effetti, il catalizzatore di due forme di identificazione di gruppo: quella «locale» rispetto ai singoli club calcistici e quella «nazionale» nei confronti della rappresentativa del proprio paese, formata dai migliori giocatori dei diversi club. Per un lungo periodo di tempo, queste due forme di identificazione sono state complementari: si tifava per il club durante il campionato di calcio o nelle coppe europee, e per la nazionale in occasione degli europei o dei mondiali. Ma a partire dagli anni Novanta e soprattutto nel corso degli anni Novanta (specialmente dopo la famosa sentenza Bosman), è progressivamente emerso un mercato mondiale dei calciatori, che ha reso sempre più incompatibili gli interessi delle nazionali con gli interessi dei grandi club. La globalizzazione del mercato dei calciatori ha infatti permesso a un consorzio di club ricchissimi, situati per lo più in un ristretto numero di Paesi dell’Europa occidentale, di costituirsi come «marchi globali» in cui giocano calciatori reclutati all over the world. Spesso solo una minoranza di giocatori appartiene alla nazione dove ha sede il club: Arsène Wenger, allenatore (francese) dell’Arsenal, ha messo più volte in campo la squadra senza schierare nemmeno un giocatore inglese, e lo stesso ha fatto Mancini con l’Inter, che pure - come sanno bene i suoi tifosi - la vocazione internazionalistica ce l’ha impressa fin dalle origini. L’Arsenal, l’Inter e ancor più il Milan, il Manchester United, il Chelsea, il Barcellona, il Real Madrid, sono ormai club brand che fatturano cifre colossali con la vendita dei diritti televisivi e col merchandising legato all’abbigliamento sportivo e ai gadgets coi loro colori. Si può dire che il calcio globale è ormai dominato dall’imperialismo di questi pochi club, che competono gli uni con gli altri sia nei campionati nazionali, sia (e preferibilmente) in quelli internazionali: non è un caso che periodicamente rispunti l’idea di una «superlega» europea che dovrebbe raggrupparli per dar vita ad un campionato ancor più spettacolare, almeno dal punto di vista del richiamo mediatico e del ritorno economico, e la trasformazione della Coppa dei campioni in Champions League rappresenta certo un primo passo in questa direzione. Piedi in subfornitura La globalizzazione calcistica ha avuto però conseguenze indesiderate. In primo luogo, ha indebolito la posizione di quei club che non fanno parte della virtuale «superlega» dei più ricchi, specie in quei paesi sudamericani e africani che hanno accentuato la loro caratteristica di «esportatori netti» di calciatori. Appena meglio stanno i club minori europei, che non se la passano troppo male solo perché ingaggiano calciatori a buon mercato dalle nazioni più povere, sperando che diventino dei talenti da rivendere a suon di milioni ai club brand più importanti, oppure - proprio come nelle subforniture - ricevono in prestito dai grossi club qualche giovane astro nascente, bisognoso di farsi le ossa sui campi della periferia. In secondo luogo, la logica transnazionale è entrata in conflitto con l’appartenenza nazionale dei calciatori, cioè con i loro impegni nelle nazionali dei paesi d’origine. Gli interessi dei club brand imperialisti sono ormai in contrasto con quelli delle nazionali: per calciatori che viaggiano sul filo delle sessanta-settanta partite all’anno, l’infortunio è sempre dietro l’angolo e l’impegno con la nazionale è un rischio aggiuntivo che i club finora hanno sopportato senza averne nessun ritorno. Vieira che si rompe nelle partite con la nazionale francese resta pur sempre sul libro paga dell’Inter, che però non lo potrà impiegare per due o tre mesi, e motivazioni analoghe debbono aver ispirato Totti nell’opporre il gran rifiuto alla maglia azzurra. Bisognerà vedere come si metteranno le cose dopo l’accordo di Zurigo dello scorso 15 gennaio, in cui la Fifa e l’Uefa hanno assunto l’impegno di versare ai club congrui contributi finanziari per la partecipazione dei giocatori agli Europei e ai Mondiali, in cambio dello scioglimento del G-14 (il cartello fondato nel 2000 dalle quattordici squadre più importanti d’Europa) e della rinuncia alle richieste di risarcimento avanzate dai club in varie sedi giudiziarie. Resta comunque il fatto che rifiutare la convocazione in nazionale è un fatto che sarebbe stato semplicemente inconcepibile fino a dieci anni fa. E proprio qui, sul piano dell’identificazione, si coglie la terza conseguenza della globalizzazione calcistica, quella più complicata. I calciatori e i tifosi per i quali la nazionale resta un vettore d’identificazione importante sono quelli dei club e dei paesi più poveri: per costoro davvero l’idea di comunità nazionale si materializza per lo più sotto forma di undici uomini che tirano calci a una palla - il festoso entusiasmo che abbiamo visto nell’Iraq dilaniato dall’occupazione americana e dalla guerra civile dopo il successo in Coppa d’Asia ne è certo l’esempio migliore. Icone senza frontiere Diverso è il discorso per i calciatori occidentali e i tifosi dei loro club brand imperialisti. I primi rappresentano in qualche modo un’élite davvero transnazionale: sono cioè fra i primi uomini ad essere realmente (e non solo idealmente) «cittadini del mondo». Si può esser certi che Ibrahimovic giocherà con impegno per la nazionale svedese, ma si può avere qualche dubbio sul fatto che si «senta» svedese, e non solo per le sue origini balcaniche: lo stesso potrebbe dirsi per un’icona del calcio globale come Beckham. Ma è per i tifosi delle multinazionali del pallone che i problemi sono più cospicui. Non solo perché l’identificazione con la nazionale diventa conflittuale quando un proprio beniamino s’infortuna giocandoci (chiedete appunto ai romanisti), ma soprattutto perché essi vivono sempre più spesso la lacerazione fra l’orgoglio per le vittorie dei propri colori e il fatto che quelle vittorie maturano spesso in grazia dell’abilità pedatoria di calciatori provenienti da paesi considerati «inferiori» e i cui abitanti che migrano da queste parti si offrono come concorrenti a prezzi migliori per i lavori di bassa qualifica. La reputazione degli «zingari» La xenofobia dilagante negli stadi ne è la riprova. Gli ultras ne riproducono al meglio le immutabili caratteristiche, a cominciare dal carattere squisitamente artefatto (e nient’affatto «naturale») del discorso razzista: gli juventini che gridano «zingaro» al loro ex campione Ibrahimovic riecheggiano inconsapevolmente la famosa sentenza di una corte della Carolina del Sud, che nel 1835 sostenne che è la «reputazione» a costituire l’unico criterio per «definire negro un individuo». Sarebbe troppo facile, a questo punto, concludere che anche per il calcio la colpa è del capitalismo delle multinazionali, che omologa, distrugge le specificità locali e priva il proletariato di gusti, tradizioni e tifo. La realtà è più complessa: non c’è mai stata alcuna «età dell’oro» e tutti i campionati e i rapporti di produzione fin qui esistiti sono sempre stati impregnati di corposi interessi di classe e/o di «casta». L’odierna tendenza a mitizzare qualunque tradizione culturale, perfino le più oppressive, ricorda piuttosto il rimpianto di Alan Garrison (uno degli ultimi hooligan del Chelsea) per i «bei tempi» in cui allo stadio andavano solo diecimila persone, di cui seimila per fare a botte e le altre quattromila per godersi la rissa. Nessun rimpianto, insomma: il meticciato, coi suoi corollari di sradicamento ed eclettismo, di contaminazione e innovazione, è il futuro del calcio come del mondo. Non c’è davvero da dolersi se è passato il tempo in cui tutti insieme si gridava «Forza Italia» e l’identificazione con la nazionale si depotenzia progressivamente a favore di quella con il club. Piuttosto, poiché la globalizzazione viaggia per ora prevalentemente sulle maglie dei club brand e veicola un cosmopolitismo fondato sulle asimmetrie dei mercati finanziari, bisognerebbe trovare un modo per reinnestarla sul tronco dei pubblici poteri, dando vita ad una qualche forma di «cosmopolitismo nazionalista». Può sembrare, calcisticamente e politicamente parlando, un’utopia assoluta. Il Barcellona ce ne dà però un esempio tangibile. Non solo perché questo simbolo del nazionalismo catalano è stato fondato da un uomo d’affari protestante, lo svizzero Joan Gamper, ma soprattutto perché sono moltissimi i giocatori stranieri che hanno militato nel club catalano e hanno deciso, finita la loro carriera, di restare a Barcellona. Del resto, quello catalano non è un nazionalismo del «sangue» o di tipo teocratico, ma è una «religione civile» che - come ha scritto Franklin Foer - si fonda su poche cose: la lingua, il disprezzo per la Spagna castigliana e l’amore per il Barça. Un nazionalismo cosmopolita Confesso che, ai miei occhi di interista-leninista impenitente, assolutamente convinto della profonda lezione «materialista» che viene dal calcio - uno sport in cui il confronto fra individui è sempre mediato dalla presenza e dal possesso della «cosa» e in cui il conflitto, pur svolgendosi secondo una logica intelligibile, è sempre incerto, «aperto» nei suoi esiti ultimi -, una prospettiva del genere evoca inevitabilmente quella di una nuova «internazionale»: una parola indubbiamente antica, come scrisse Pintor nel suo ultimo editoriale, ma ancora non ve ne sono altre per enunciare l’obiettivo di «reinventare la vita in un’era che ce ne sta privando in forme mai viste». Fuor di metafora: la globalizzazione necessita ancora di stati-nazione efficienti ed efficaci, esattamente quanto le multinazionali del pallone hanno ancora bisogno delle nazionali d’origine. Si può aggiungere che non è detto che non ci servano ancora alcune delle lezioni del «nazionalismo cosmopolita» dei trenta gloriosi keynesiani (1945-1975). L’allenatore dell’Arsenal l’ha capito benissimo: «A me non interessano le nazionali, ma so che dobbiamo averle nel sistema, perché sono loro che continuano a far affluire il denaro». Parole crude, ma sante. Luigi Cavallaro