Il Sole 24 ore 17 febbraio 2008, Paolo Madron, 17 febbraio 2008
SocGen e la crisi del modello Ena. Il Sole 24 ore 17 febbraio 2008. Dallo scandalo di una banca che si fa clamorosamente gabbare da un trader infedele alla messa sotto accusa di tutto un sistema il passo è stato brevissimo
SocGen e la crisi del modello Ena. Il Sole 24 ore 17 febbraio 2008. Dallo scandalo di una banca che si fa clamorosamente gabbare da un trader infedele alla messa sotto accusa di tutto un sistema il passo è stato brevissimo. Troppo, per non capire che dietro lo scandalo della Société Générale covava l’insofferenza verso un capitalismo che ha arricchito a dismisura una casta di tecnocrati. E, cosa che più fa arrabbiare l’opinione pubblica, senza che quando sbagliavano nessuno mai presentasse loro il conto. Jérôme Kerviel, l’arbitraggista ribaldo e infedele, è stato solo la causa scatenante, quello che ha fatto venire ai francesi la voglia di andare a vedere che cosa c’è a monte di un episodio così incredibile e devastante. Possibile che Daniel Bouton, che ora si espone in tutte le salse mediatiche nell’improbo tentativo di rimediare a una figuraccia barbina, non lo abbia capito? Quando il presidente di SocGen si fa intervistare in tivù appare ancora più cupo, ruvido e sprezzante di quanto lascino presagire le sue risposte su carta. Ai suoi occhi, quello che è successo è la conseguenza di un destino cinico e baro, di una "sfiga" universale che ha reso di burro le granitiche barriere di controllo interne alla sua banca, fatto increscioso su cui non resta che piangere e recriminare. «Daniel, quando parli tu mi viene sempre la depressione», lo aveva rimbrottato Nicolas Sarkozy durante una recente cena di banchieri all’Eliseo, ammettendo però che il tema del convivio, la crisi dei subprime in cui anche la succitata banca stava invischiata, non si prestava a toni festaioli. «Perché – gli chiede un giornalista – la gente simpatizza per Kerviel, uno che con le sue bravate ha messo a repentaglio i soldi di tanti correntisti?». E lui col ciglio teso e il tono grave: «Perché per definizione la gente sta sempre con Robin Hood», non sapendo che così dicendo gli tocca per converso la poco confortevole parte dello sceriffo di Nottingham. Ma in questa storia, ormai lo capiscono tutti, non ci sono buoni e cattivi, vincitori e vinti. Non risulta infatti che il giovane Kerviel puntasse i soldi della terza banca di Francia per poi distribuirli ai poveri delle periferie o ai sans papiers che bivaccano nelle stazioni del metrò. Se mai, almeno nelle intenzioni, lo faceva perché la sua banca - e dunque anche lui - potesse guadagnare ancora di più, anche se non doveva essere un genio della finanza uno che all’inizio dell’anno scommette sulla ripresa dei mercati. Insomma, il sospetto che serpeggia è che tra l’inflessibile sceriffo e l’audace (o stupido) arciere ci sia un inconsapevole comun denominatore. Ovvero che i 5 miliardi persi siano il frutto marcio di una medesima ansia di prestazione che imperversava ai piani alti e bassi della banca: guadagnare, guadagnare, e ancora guadagnare, non importa se i mezzi per farlo erano sfrontatamente borderline. E questo, in una Francia come tutte le economie dell’Occidente presa a morsi dalla cattiva congiuntura, non va proprio giù a nessuno. Lo si capisce anche dalla reazione rabbiosa al primo tentativo di concretizzare uno dei 316 proponimenti della Commissione Attali, quello sui tassisti: respinto con perdite dopo appena due giorni di sciopero, con tanto di reazione piccata dell’altezzoso Jacques che ha minacciato di chiudere anzitempo la sua bottega liberal-liberista. Che sia anche lui un enarca? Risposta affermativa, che dovrebbe almeno insospettire quanti qui da noi vorrebbero importare pari pari le ricette dell’ex super consulente di François Mitterrand. A proposito di comun denominatore, sarebbe utile riandarsi a leggere gli atti del convegno organizzato giusto l’aprile scorso dagli ex allievi delle grandi scuole, quindi Ena più Politecnico insieme. Titolo: la dittatura del mercato e l’imperativo del breve termine. A discuterne la crema dei Pedegé, presidenti-direttori generali, tutti a lamentarsi di come la pressione a portare risultati fosse talmente forte che prima o poi avrebbe finito col creare qualche catastrofico cortocircuito. Sinistra profezia di un capitalismo che se non si dà una regolata rischia di essere divorato dalla sua stessa voracità? Ecco, gli enarchi alla Bouton sono visti adesso come l’emblema di questo capitalismo che più vorace non si può, con in più, come annotò Carlo Marx in pagine memorabili, quell’arroganza tipicamente francese che è il portato della matrice culturale bonapartista (altro che Colbert!). E che comincia a infastidire persino gli stessi francesi, almeno quelli più cosmopoliti e aperti. Nicolas Sarkozy, che di bonapartismo se ne intende e che certi umori li capisce al volo, in questa Francia che quanto a confusione somiglia sempre più all’Italia, aveva fatto dell’insofferenza verso l’opprimente tecnocrazia uno dei suoi cavalli di battaglia. Il piatto a più forte valenza simbolica - per la verità pensato, ma furbescamente lasciato esplicitare al destro Jean-Marie Le Pen e al centrista François Bayrou - era l’abolizione dell’Ena, la gran fucina dove dal dopoguerra si temprano i notabili della funzione pubblica. Scuola di prefetti, almeno come l’aveva concepita il generale de Gaulle insieme al comunista Maurice Thorez, poi diventata palestra di boiardi che non hanno resistito alla tentazione di passare al privato, dove ci si arricchisce prima e meglio. L’Ena, secondi i critici, ha finito sempre più per assecondare la metamorfosi che trasforma dei servitori dello Stato in vice campioni del mondo di stock options, secondi solo agli americani. I quali però, quando sbagliano, finiscono in galera, mentre i francesi cadono (quasi) sempre in piedi. Il fenomeno, che va sotto il nome suadente di pantouflage, conta innumerevoli esempi. Il malcapitato Bouton è certo un gran "pantuflatore", ma niente al confronto di Jean-Marie Messier, non rimpianto patron di Vivendi, che dell’esercizio ha fatto un’arte passando con grande disinvoltura, parole di «Le Monde Diplomatique», dall’etica di Stato all’estetica - non a caso aveva guardato alla hollywoodiana Universal - dove fondamentale è l’abilità a recitare un ruolo mediatico. O di Jean-Yves Haberer (dal ministero delle Finanze alla guida di Paribas e poi del Crédit Lyonnais), o Michel Bon (quattro anni da ispettore a Bercy prima di andare a dirigere grandi banche e poi concludere disastrosamente la carriera in France Télécom). L’Ena, a dire il vero, la volevano abolire un po’ tutti, tranne che la sfidante presidente Ségolène Royal: invano i suoi sostenitori hanno inutilmente scongiurato perché facesse almeno la proposta. Ma con che coraggio si chiede l’ignominiosa cancellazione della scuola da cui è uscita lei, sarcasticamente ribattezzata dai blog SégolEna, e François Hollande, suo ex marito e compagno di partito? Sul bersaglio Ena è stato scagliato di tutto, talvolta un po’ artatamente. La prima critica è di carattere, per così dire, statistico: i fallimenti di imprese guidate da enarchi sono infinitamente più numerosi dei casi di successo. Se si fa eccezione per Louis Schweitzer alla Renault e Jean-Cyril Spinetta, nome caro ai sostenitori di Malpensa, in Air France, il resto è un elenco di disastri. A impressionare c’è poi stata la vicenda Alstom, il colosso dei Tgv portato all’agonia da un enarca da poco scomparso, Philippe Jaffré, e raddrizzato alla grande dall’ostinazione con cui Sarkozy ne ha voluto il salvataggio violando le regole europee, nonché dall’uomo che ne è stato l’artefice sul campo, quel Patrick Kron che invece si è diplomato "solo" al Politecnico e all’Ecole des Mines. La seconda critica è invece più sostanziale e interessante: gli enarchi sono lo strumento con cui lo Stato ha continuato a esercitare anche in un’economia privatizzata il suo ruolo di padre padrone. Ma se enarchi sono i controllati, manager di banche e società quotate, ed enarchi i controllori (Christian Noyer, governatore della Banque de France, e Michel Prada, presidente dell’Afm, la Consob francese, vengono da lì) dove sta il contro-potere, sale di ogni democrazia economica? Se il potere si perpetua per cooptazione elitaria, la sua essenza autoreferenziale è la ragione costitutiva, il mutualismo (le partecipazioni incrociate e gli intrecci di poltrone nei vari consigli d’amministrazione) la solo forma di governo societario e il conflitto d’interessi la sola prassi conosciuta. Ma dopo lo scandalo di SocGen il re è nudo, e il novello Bonaparte che abita all’Eliseo anche. Se la destra è liberale in politica ma non in economia, ogni intento di voler aprire all’aria del mondo le polverose stanze abitate dagli enarchi è pura accademia. Bisognerebbe, almeno, che certe nomine non dipendessero dal presidente della Repubblica, questo e quelli passati, o dalla sua cerchia. Ma, obiettano gli accusati, a ingabbiare la voracità del mercato ci pensa un ferreo sistema di controlli, interni ed esterni. Come essi funzionino lo ha appunto dimostrato la vicenda SocGen: quelli interni, sempre secondo il malcapitato Bouton i più sofisticati che banca conosca, sono stati facilmente elusi da un impiegato di media fascia e nemmeno, pare, tra i più svegli. Gli esterni, quelli fatti dalla Commission Bancarie, negli ultimi mesi sono stati diciassette: visti i risultati, è come non ne avesse fatti nessuno. Ciliegina sulla torta, Bouton nel 2002 è stato il presidente dell’omonima commissione voluta dal Medef, la Confindustria francese, per capire come ristabilire un clima di fiducia tra cittadini e imprese dopo gli scandali Enron, Worldcom e Vivendi. Adesso a Parigi pensano giustamente che tutto il dibattito scatenato intorno allo scandalo della Société Générale non sia un buon viatico al turno di presidenza francese della Ue che comincerà a luglio. Ci si chiede: ma qual è la concezione economica che ha in mente Sarkozy? Che cosa pensa del capitalismo, delle regole, della concorrenza su mercati sempre più globali? Che cosa andrà a proporre agli Stati membri in termini di governance, fiscalità e diritto societario? E qui l’opinione pubblica d’Oltralpe si spacca in due. Per i detrattori, il marito di Carla Bruni è un campione di ammuina, ovvero dell’arte di muovere tutto perché tutto resti come prima, l’atteggiamento prediletto di chi tiene più all’immagine che alla sostanza. Commissioni, sottocommissioni, dichiarazioni universali che tradotte nella realtà (vedi la decisione di togliere la pubblicità dalla tv pubblica) creano solo scontento. Per altri invece, meno malevolmente, il presidente della Repubblica ha già fatto una sua chiara scelta di campo, a favore dei Pdg propriétaires, ovvero i padroni, a discapito dei Pdg managers, i dirigenti ancorché ricchi e gonfi di stock options. Scelta fatta non oggi ma tempo addietro, quando Antoine Berheim fece da mentore al giovane partner dello studio legale Leibovici-Claude-Sarkozy presentandogli Bernard Arnault e Vincent Bolloré che poi, assieme a Martin Bouygues, costituiscono la sua troika industrial-finanziaria di riferimento. Ma simpatizzare con i padroni e diffidare degli enarchi non basta a risalire nei poco lusinghieri sondaggi. Occorre fare di più: il colpo di teatro potrebbe avvenire in primavera, con un rimpasto di governo la cui vittima più illustre sembra essere Christine Lagarde, il ministro dell’economia, che sull’affare SocGen ha cincischiato e poi, di fatto, difeso il vertice della banca. Il fatto che la sua domanda di iscrizione all’Ena sia stata respinta per ben due volte non sembra costituire agli occhi di Sarkozy un motivo sufficiente per salvarla. Paolo Madron