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 2008  febbraio 15 Venerdì calendario

Gabriele d’Annunzio, Il piacere. Il Giornale 15 febbraio 2008. «Lavorate, lavorate, lavorate, voi giovani, voi pieni di fede, e di forza! Ci sono ancora molte vette da conquistare

Gabriele d’Annunzio, Il piacere. Il Giornale 15 febbraio 2008. «Lavorate, lavorate, lavorate, voi giovani, voi pieni di fede, e di forza! Ci sono ancora molte vette da conquistare. Tu, che sei una natura così signorilmente squisita di artista, tu farai molto, andrai molto avanti. Getta via lungi da te tutti i timori, tutte le timidezze, tutte le esitazioni: sii audace, sempre audace; non ti stancare mai di cercare, di tentare, di provare. La via dell’arte è lunga e scabra ed erta: per salirla ci vogliono dei lombi armati di valore. Tu hai un’intelligenza fine e una cultura non comune; ti manca lo spirito irrequieto delle imprese. Costì [...] in codesta baraonda vivente, tramezzo ai coetanei, alli emuli, alli invidi, fatti largo, per dio! Tu hai diritto di farti largo in faccia al gran sole: conquistalo [...]. Non ti spaventare della lotta: è la lotta per la vita: the struggle for life del Darwin, la lotta inevitabile e inesorabile. Guai a chi si abbatte. Guai alli umili! Non ti scandalizzare di queste massime poco cristiane. Dà retta a me, a me che ti sono amico sincero e che ho molta esperienza dall’essere vissuto in mezzo alla gente combattendo a furia di gomitate e facendomi largo furiosamente». Chi scrive questi consigli a un amico, alunno del Conservatorio di Napoli, non è un ottuagenario. un giovane di ventun anni, già noto alle patrie lettere e che può permettersi di offrire la ricetta per imporsi e conquistare il successo. Questo giovane sferrerà colpi formidabili alla vecchia cultura italiana, impaludata nel classicismo carducciano; alla politica italiana, perduta nei meandri di un trasformismo interminabile; alle abitudini della borghesia e della società ottocentesca, scossa dal terremoto delle sue intuizioni e dalla rivoluzione scatenata dalle sue parole, dalle sue azioni, dal suo gusto. L’Italia, provinciale e appena uscita dalle illusioni risorgimentali, trovò in Gabriele d’Annunzio - dall’ultimo decennio dell’Ottocento agli anni Venti del Novecento - un poeta che le additava un’esistenza diversa, un riscatto o, almeno, un sogno. Alternando odio e amore, assisteva incredula alle baldanzose intemperanze di un artista che non si accontentava della torre d’avorio riservata ai personaggi strambi e dissociati dalla realtà che lo stesso d’Annunzio definì «intellettuali». Il sottotitolo di questo volume non si riferisce soltanto alle sue prodezze amatorie e belliche: d’Annunzio fu un «amante guerriero» in ogni sua attività, dalla letteratura al teatro, dalla politica alla difesa dei beni culturali (altra sua invenzione linguistica). Il Poeta, il Vate, il Comandante piegò la norma incalzandola con la scrittura, anzitutto, ma anche con passioni, gesti, compiacimenti trasgressivi. Rivendicò la superiorità dell’arte su qualsiasi esperienza, allo stesso tempo adattandola alle esigenze di una collettività sempre più esigente, ma senza mai costringerla alla massificazione volgare. Seppe conquistare il mondo della borghesia, interpretandone le aspettative e i desideri, proponendo un modello d’eccezione in cui la letteratura si fondeva con una sfavillante offerta di vitalità e di creatività. Per questo fu davvero, prima di ogni altro artista, un personaggio pubblico; perché la sua immagine fu il frutto di una costruzione continua, di un’esistenza vissuta sotto gli occhi di tutti; perché seppe esibire, primo divo della modernità, le sue esperienze sentimentali e i suoi costumi di vita; ma soprattutto perché la sua avventura fu il canto maledetto e prezioso di un’Italia catturata dall’inscindibile binomio del testo e del gesto. La cultura del secondo dopoguerra ha cercato in tutti i modi di sbarazzarsi di quell’uomo che marchiò il proprio tempo e influenzò il futuro, alternando l’indifferenza alla condanna, totale e preventiva. D’Annunzio, ha scritto Alberto Arbasino, è il «Cadavere in Cantina fra i più ingombranti di tutte le letterature, di tutti i paesi, vilipeso, conculcato, negletto». Mentre Carducci, Pascoli, Verga sono già collocati storicamente, d’Annunzio, «oggi così apparentemente assente, sta ancora dentro la crisi italiana; o, se si vuole, la contemporanea crisi italiana è ancora troppo ricca di umori sofferti da d’Annunzio, per poter smaltire d’Annunzio» (Mario Sansone). La diffidenza ideologica verso l’interprete del superomismo, l’irritazione per il personaggio e per ciò che ha rappresentato si sono unite ai pregiudizi di una critica letteraria che, fingendo di colpire lo scrittore e il poeta, si scagliava contro il nazionalista, l’antidemocratico, il guerrafondaio, il decadente, trascurando del tutto il libertario e l’uomo libero da ogni schema politico. Riscoprirlo significa assegnargli il posto che gli compete fra gli italiani: di cui fu un campione smisurato e che ci somiglia troppo, per essere amato. Giordano Bruno Guerri