Il Sole 24 ore 19 febbraio 2008, Alberto Negri, 19 febbraio 2008
Kenya, la scommessa del petrolio. Il Sole 24 ore 19 febbraio 2008. Il Kenya è un Paese importante? Le statistische non parlano di grandi ricchezze minerarie e petrolifere, eppure il centro di Nairobi è la sede preferita nel Continente dagli svettanti grattacieli delle multinazionali, qui si fanno le trattative diplomatiche per la Somalia e il Corno d’Africa
Kenya, la scommessa del petrolio. Il Sole 24 ore 19 febbraio 2008. Il Kenya è un Paese importante? Le statistische non parlano di grandi ricchezze minerarie e petrolifere, eppure il centro di Nairobi è la sede preferita nel Continente dagli svettanti grattacieli delle multinazionali, qui si fanno le trattative diplomatiche per la Somalia e il Corno d’Africa. Questa è la porta dell’Africa orientale, dove passano i due terzi dei commerci e degli affari con la regione dei Grandi Laghi e le pipeline per convogliare il petrolio africano al porto di Mombasa. Il Kenya, fino a pochi mesi fa, era il candidato più probabile degli americani per insediare l’African Command, il quartier generale delle operazioni militari per controllare l’Africa orientale dove fondamentalismo islamico, oro nero e cosiddette "guerre etniche" sono versanti diversi di una partita globale. «Il petrolio africano è diventato un interesse strategico nazionale» ha dichiarato il Dipartimento di Stato qualche tempo fa, prevedendo che alla fine del decennio gli Stati Uniti importeranno dal Continente il 25% del loro fabbisogno di oro nero. La presenza di Condoleeza Rice ai negoziati di Nairobi condotti da Kofi Annan tra Governo e opposizione quindi è tutt’altro che neutrale: gli Stati Uniti, che nella regione hanno la loro base più importante a Gibuti, sono presenti in Kenya a Manda Bay, nella zona di Lamu, ai confini con la Somalia. Il gran rifiuto di ospitare l’African Command è costato al presidente Mwai Kibaki l’appoggio Usa. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna - che a sua volta qui ha due basi - hanno dato il loro sostegno al candidato dell’opposizione Raila Odinga. «Kibaki e questo Governo - dice il ministro Uhuru Kenyatta, figlio del padre della patria Jomo - si sono dimostrati troppo indipendenti dagli interessi americani e inglesi: Londra si è infuriata per avere perso con la Land Rover la fornitura di migliaia di mezzi per polizia ed esercito, un appalto che durava da decenni». E ancora di più, nei mesi scorsi, deve avere irritato Washington il fatto che la libica Tamoil abbia acquistato la Mobil Kenya e sia diventata la seconda maggiore azionista, dopo lo Stato kenyota, della raffineria di Mombasa, sopravanzando, Shell, Bp e Chevron. vero che il clima tra Washington e Tripoli è cambiato e la maggioranza di Tamoil in Europa è stata rilevata dal libanese Thomas Barrack, amico personale di George Bush, ma la mossa ha escluso le major americane. I libici della Tamoil sono partner anche nella joint venture per il prolungamento della pipeline tra Kenya e Uganda, altro Paese dove si stanno intensificando le ricerche petrolifere. All’asse anglo-americano non deve essere piaciuto neppure perdere qualche gara importante in settori sensibili come quello dei radar e della sicurezza, dove si stanno facendo strada anche le aziende della Finmeccanica. Gli italiani, che vicino a Malindi hanno la base spaziale San Marco, contano su una presenza di lungo periodo e sono stati individuati dai Paesi della regione come possibili partner alternativi a francesi, americani e inglesi. I piani kenyani, prima di questa crisi, erano ambiziosi: passare da un’economia leggera, da safari e vacanze, a un’economia pesante: diventare un hub per il trattamento e l’esportazione delle risorse minerarie e petrolifere dell’Africa orientale e dei Grandi Laghi, fornire servizi finanziari, bancari e di sicurezza per tutte le attività economiche dell’area. Un obiettivo sostenuto da una considerazione: il Kenya è da sempre una roccaforte occidentale in Africa, dai tempi della guerra fino all’era sanguinosa del terrorismo di al-Qaida che qui si aprì con il duplice attentato dell’agosto ’98 alle ambasciate Usa di Nairobi e Dar es Salaam (Tanzania). Un segnale inequivocabile è la storica presenza israeliana. Agli inizi del 900 gli inglesi assegnarono qui ai coloni ebrei il primo pezzo di quello che sarebbe dovuto diventare il loro Stato. Dopo l’indipendenza i kenyani collaborano al famoso raid di Entebbe del ’76, quando in trenta minuti il Mossad liberò un centinaio di ostaggi su un aereo dirottato dai palestinesi e Israele ha mantenuto la sua presenza qui, oltre che in Uganda, con l’addestramento di ufficiali e la fornitura di sistemi sofisticati di telecomunicazione e sorveglianza elettronica. Ma è l’esportazione del petrolio sudanese, controllato per ora al 50% dai cinesi, la vera posta in gioco, insieme alle basi militari, che collega Nairobi alle crisi e alle strategie africane. Il petrolio costituisce una possibile, anche se parziale, chiave di lettura della guerra in Darfur, regione dove le élite usano gli scontri per spartirsi quote della produzione del Sud Sudan. Il Darfur, un territorio che a sua volta racchiude riserve, è candidato al passaggio di una pipeline diretta in Ciad, altro punto focale di guerriglia e oro nero. La Kenyan Pipeline Company (Kpc) sta realizzando o ha in progetto una serie di oleodotti per portare a Mombasa il petrolio del Sudan meridionale, in alternativa al terminale di Port Sudan sotto il controllo di Khartoum. In programma c’è anche il raddoppio delle pipeline interne tra Kisumu, Nakuru ed Eldoret, teatro il mese scorso di una feroce pulizia etnica. Gli oleodotti avranno diverse diramazioni. Una, verso Kampala, destinata a rifornire di carburante Uganda, Ruanda e Congo. A questa pipeline potrebbe essere affiancata una seconda linea per l’export del petrolio ugandese che secondo la britannica Tullow, incaricata delle trivellazioni intorno al Lago Alberta, ha riserve stimate per un miliardo di barili. Il governo autonomo del Sudan meridionale, che possiede gran parte delle riserve, vorrebbe collegare con un oleodotto la capitale Juba al Kenya, dove dall’altra parte del confine, a meno di 50 chilometri dalla frontiera, c’è la città di Lockichoggio, oscuro avamposto militare. Locki, trasformata in una grande base per le operazioni umanitarie Onu in Sudan, aspira a diventare lo snodo dei collegamenti ferroviari e petroliferi con il Sudan. Secondo gli accordi di pace che nel 2005 misero fine al conflitto ventennale tra il regime islamico di Khartoum e i ribelli del Movimento di liberazione Splm, il governo autonomo di Juba riceve il 50% delle entrate petrolifere, 1,3 miliardi di dollari l’anno, oggi esportate da Port Sudan. Questi piani possono ribaltare la situazione geopolitica in Africa orientale. Nuove entrate petrolifere permetteranno al governo di Juba di preparare l’indipendenza: per il Nord musulmano sarebbe una disfatta, a cui si aggiunge oggi la crisi del Darfur. Le conseguenze sarebbero rilevanti per la Cnpc cinese, oltre che per altre società orientali, che hanno ricevuto le concessioni dal regime di Khartoum. L’idea di contrastare l’avanzata cinese e assestare un colpo al Sudan islamico può affascinare gli Stati Uniti e le compagnie occidentali ma c’è da chiedersi fino a che punto la comunità internazionale è in grado di affrontare un’altra crisi in una regione dove, oltre alla Somalia, sono in fase di disgregazione il Sudan e il Ciad, mentre il Kenya vive il periodo più difficile della sua storia e sta risalendo la tensione tra Etiopia ed Eritrea. Una successione di eventi, a volte dettati da una logica spietata, dove si alternano calcoli diplomatici, economici e una violenza brutale che depreda e dilania le popolazioni africane. Alberto Negri