Il Sole 24 ore 19 febbraio 2008, Donatella Stasio, 19 febbraio 2008
Il carcere cambiato da una donna. Il Sole 24 ore 19 febbraio 2008. Il carcere l’ha inghiottita a 27 anni
Il carcere cambiato da una donna. Il Sole 24 ore 19 febbraio 2008. Il carcere l’ha inghiottita a 27 anni. Era il 1991. Da allora, non ne è più uscita. Le ha mangiato la vita ma non l’ha mai travolta. Una lotta costante e ostinata, per dimostrare che le sbarre non sono peggiori di quelle che ingabbiano, anche fuori dal carcere, tante vite storte e che un muro di cinta non impedisce di riprogettare la propria esistenza. Un sogno? Sicuramente una «grande scommessa», che poteva trasformarsi in una «grande sconfitta». Oggi, a 44 anni, Lucia Castellano quella scommessa l’ha vinta. Dal 2002 dirige un carcere modello - Bollate - dove la «risocializzazione» dei detenuti non è uno slogan ma una realtà, grazie a un «progetto di sperimentazione» avviato nel 2001, che, a ben vedere, ha assai poco di sperimentale perché consiste semplicemente «nell’avvicinare l’ideale al reale» applicando i principi costituzionali sui diritti fondamentali dell’uomo, le norme e le regole sul carcere esistenti in Italia. Quanto basta per trasformare un «luogo infernale» in «un luogo sensato». Ora, però, c’è un’altra scommessa da vincere: ieri sono arrivate, dal carcere di Opera, 35 detenute e, in un ambiente "libero" come quello di Bollate, la promiscuità è un fattore di rischio elevato, che potrebbe mandare in frantumi il lavoro svolto finora. «Sono molto preoccupata - ammette la Castellano – perché il regime di Bollate si basa su un rapporto fiduciario, che ci fa accettare anche alcuni eventi critici, come un’evasione (dal 2002 ce ne sono state 2, ma gli evasi sono stati ripresi, il primo, nel giro di 5 giorni, il secondo, dopo 12 ore, ndr). Integrare uomini e donne in un luogo in cui l’unico limite è il muro di cinta è come farli giocare con il fuoco, come mettere una torta davanti a un affamato. un rischio che non possiamo correre, ma siamo pronti anche a questa nuova scommessa». Tenacia, competenza, passione. E capacità di credere a un sogno. Diversamente, Lucia Castellano non sarebbe dov’è, a fare un lavoro che «non dà un riconoscimento sociale paragonabile a quello di un magistrato o di un commissario di polizia», che «rischia di travolgerti se non conservi un equilibrio interiore», di «farti sentire reclusa tra i reclusi». Un lavoro da 2.500 euro al mese, appena il doppio di quanto guadagnano i detenuti soci della Cooperativa di catering "Abc, la sapienza in tavola", uno dei fiori all’occhiello di Bollate che dà lavoro, dentro e fuori il carcere, a 293 dei 454 detenuti. «Ogni tanto, quando la stanchezza fisica si fa sentire di più, penso: Madonna, però c’è un mondo fuori!». Lo dice con quell’inflessione napoletana che dilata le parole, riempendole di colore e di calore. «Ma non penso mai: che noia, che cosa ripetitiva! Anzi, quando vado in vacanza, dopo un po’ sento che questa vita mi manca e sono contenta di tornare». In fondo, è "solo" «passione civile». E basta a non sentirsi isolati. Nell’immaginario collettivo il direttore di un carcere è solitamente un uomo. Sarà per questo che, quando si parla di Lucia Castellano - divenuta un’icona del "buon carcere" - a volte si usano espressioni che rimandano alla figura maschile. «Una con il pelo sullo stomaco», si è detto, ad esempio, di lei. Ma nessuno - poliziotti, detenuti, collaboratori, amici - le riconosce questa "qualità". «Semmai, sono ingenua, fin troppo immediata e diretta, incapace di fare strategie», ribatte. La determinazione, però, non le è mai mancata, fin da quando studiava giurisprudenza a Napoli - dov’è nata - e già sentiva «un’attrazione» per il carcere. «Questa, forse, è una parte patologica di me», riflette, quasi a voler dare una ragione più profonda alla sua scelta di vita, che razionalmente spiega con l’interesse «per un lavoro di organizzazione all’interno della macchina statale, allo scopo di cambiarla». Come lei, a partire dagli anni 90 molte altre donne hanno fatto la stessa scelta e oggi sono un terzo di tutti i direttori di carcere (64 su 205). Cresciuta nella buona borghesia napoletana, Lucia Castellano si laurea in legge a 24 anni con 110 e lode. una ragazza intelligente, colta, di buone letture, curiosa. Il suo destino professionale è segnato: tutti si aspettano che faccia il magistrato e anche lei ne sembra convinta. Ma il concorso va male e, per la prima volta, sente il peso della sconfitta. Di lì a poco supera l’esame per dirigenti delle carceri. il ’91. Parte per Genova, destinazione Marassi, le «Case rosse». la prima volta che mette piede in una "prigione" e le sembra di stare in un film: il classico Panopticon con enormi volte, la rotonda su cui affacciano le celle disposte a cerchio sui ballatoi, i poliziotti che si parlano da un piano all’altro ad alta voce. «Ora è cambiato tutto, ma all’epoca - ricorda - mi sembrò una scena dantesca. L’impatto emotivo fu fortissimo. Tra l’altro, io ero partita con l’idea di dover gestire i detenuti e invece compresi che esiste anche un’altra realtà: i poliziotti. Un altro tipo di sofferenza e di responsabilità. Oggi i poliziotti sono i miei migliori collaboratori; senza il loro contributo, Bollate non sarebbe diventato un carcere di riferimento in Italia». Il carcere la «inghiotte», e subito si accorge del divario tra la teoria e la realtà, tra l’apparato di norme penitenziarie e la qualità della vita quotidiana. Avverte di nuovo un senso di sconfitta, perché capisce che «il sistema dell’istituzione totale è più forte della volontà di cambiarlo». Ma poi si lancia nella sua «missione» con un’altra giovane vicedirettrice: trasformare il carcere in «un luogo da cui si ricomincia, non in cui si è finiti». Nel ’95 si trasferisce a Eboli, un carcere a custodia attenuata per tossicodipendenti. Ha 31 anni; è diventata direttore; fa la pendolare con Napoli, dove nel frattempo si è sposata: 240 Km al giorno, tra andata e ritorno. in quegli anni che scatta la «scommessa»: l’idea «romantica» del carcere lascia il posto alla consapevolezza di poter «governare una cittadella», e che, per governarla bene, è essenziale il «rapporto con l’esterno». Comincia a prendere la giusta distanza. Comprende, ad esempio, che con l’ingresso in carcere di altre istituzioni - la scuola, le cooperative, il servizio per tossicodipendenti - si perde l’autoreferenzialità, il senso di onnipotenza tipico del "carceriere", nonché il senso di colpa, che fa da contraltare al senso di onnipotenza. «A Eboli mi sono fatta le ossa e ho imparato a lavorare in modo diverso dal classico direttore di carcere. Ho potuto provare, in vitro, quello che poi ho realizzato a Bollate». Sono gli anni della svolta, anche nella vita privata. «Paradossalmente, mi sentivo più rassicurata in una vita oscillante e insicura - racconta, dopo aver ricordato la «dolorosa separazione» dal marito -. Non ho avuto figli non perché non volessi o perché fosse incompatibile con il lavoro, ma perché non mi volevo fermare. Questo è un lavoro che sei vuoi fare in un certo modo ti mangia la vita. Ma sarebbe stato così anche se avessi fatto il magistrato». Sette anni dopo - marzo 2002 - arriva a Bollate. «E sono rinata!», esclama. Oggi la affiancano altre due donne: una è la vicedirettrice, l’altra è la comandante dei 370 poliziotti (20 sono donne). E anche questo è un caso più unico che raro. «L’autorevolezza non ti viene riconosciuta per il ruolo che hai, ma per quello che fai». Jeans, maglione, giacca a vento, Lucia Castellano si muove in questa cittadella come una delle tante persone che la animano quotidianamente: educatori, poliziotti, detenuti, volontari. Questa "libertà" la inorgoglisce. E se le chiedi quali «riscontri» ha avuto questo lavoro sui detenuti, ti risponde che, al di là dei numeri, «il problema è capire qual è l’obiettivo». «Se è il recupero della persona - spiega -, allora entrano in gioco una serie di variabili che non dipendono dall’amministrazione penitenziaria: l’ambiente esterno, la volontà della persona, la sua capacità di riscattarsi una volta fuori. Se invece l’obiettivo è, più modestamente, offrire al detenuto delle opportunità, degli strumenti per non peggiorare la sua situazione, per non farlo uscire totalmente devastato, allora io dico che Bollate ha funzionato. Perché qui i detenuti hanno delle opportunità reali. Imparano uno stile di vita, l’abitudine al lavoro. Si alzano la mattina per andare a faticare e tornano in cella la sera. Qualcuno, che ha fatto lo spazzino, mi ha detto: dottoressa, non posso immaginare che le persone libere fanno questa vita. Probabilmente, quando uscirà non avrà voglia di alzarsi la mattina alle cinque per spazzare le strade. Ma io quello posso offrirgli, come lavoro. Uno che lavorava alla cooperativa di catering - bravissimo - quando è uscito ha rifiutato l’offerta di continuare a lavorare da noi, perché la sua famiglia lo avrebbe considerato «un infame». E tra la famiglia e noi, ha scelto la famiglia. Ma c’è anche chi ha scelto in modo diverso: oggi abbiamo tre "ex" che fanno i cuochi. Ci sono dei detenuti elettricisti, falegnami, operatori di rete informatica che si butterebbero nel fuoco per la loro cooperativa. Ripeto, il mio obiettivo è farli uscire attrezzati, evitando che il carcere diventi un luogo di abbrutimento. E da questo punto di vista, posso dire che Bollate è un successo». Donatella Stasio