Corriere della sera 19 febbraio 2008, Marco Del Corona, 19 febbraio 2008
Le nuove Chinatown. Corriere della sera 19 febbraio 2008. C’erano. Non ci sono più. Affioravano dietro i vetri smerigliati delle vecchie botteghe, occupavano gli stanzoni sotto il livello del marciapiede, via Morazzone, via Bruno, quartiere Paolo Sarpi, Milano
Le nuove Chinatown. Corriere della sera 19 febbraio 2008. C’erano. Non ci sono più. Affioravano dietro i vetri smerigliati delle vecchie botteghe, occupavano gli stanzoni sotto il livello del marciapiede, via Morazzone, via Bruno, quartiere Paolo Sarpi, Milano. Niente. I laboratori dei cinesi non ci sono più. Si cucivano borse, si faceva l’alba e all’alba si ricominciava. Basta: in tutta la Chinatown non esiste più la storica attività manifatturiera che aveva caratterizzato la zona. C’erano 16 esercizi nel 2001, ora nessuno. Via Paolo Sarpi cambia, questo è uno dei segni. Cresce l’ingrosso che allarma i residenti italiani e dà grattacapi al sindaco Letizia Moratti (vedi i disordini del 12 aprile dell’anno scorso) ma i negozi al dettaglio aumentano molto di più. Chinatown cambia faccia mentre si parla di lei, corre veloce, prospetta tendenze, visto che in Lombardia si concentra un quarto della presenza cinese in Italia. E celebra la svolta del terziario. La fotografia attuale mostra una realtà già profondamente diversa rispetto anche solo a 5 anni fa. Un nuovo dossier aggiornato al 2007 curato da Daniele Cologna con l’Agenzia di ricerca sociale Codici, focalizzato sulle dinamiche dell’imprenditoria cinese, mostra che i dati demografici e le verifiche sul terreno cozzano spesso con la percezione diffusa degli abitanti italiani del quartiere e di Milano. Innanzitutto: la zona Sarpi, ovvero l’area a ridosso del centro delimitata dalle vie Canonica-Procaccini-Ceresio-Montello-Maggi, ha una popolazione a stragrande maggioranza italiana, oltre il 90%; dei 14 mila cinesi residenti a Milano il 31 dicembre 2006, solo il 5,8% è a Chinatown (il 6,5 nel 2004). «Si aggiungano pure i residenti temporanei’ spiega Cologna – ma si tratta al massimo di 300 persone che alloggiano nei dapu (dormitori), una quindicina da 20 posti letto. In ogni caso si resta sotto il migliaio di residenti cinesi complessivi». I cinesi si concentrano altrove, nell’area Nord. A Chinatown i cinesi, ma ormai non solo loro, vanno a lavorare, gli addetti che gravitano in zona sono fra i mille e i 1.500. Fu agli inizi degli anni Trenta che Canonica-Sarpi raccolse i primi immigrati asiatici e lì alla ripresa dei flussi dalla Repubblica Popolare (1984) sono andati ad abitare e a lavorare. E’ con le ristrutturazioni, la «gentrificazione» e la rivalutazione immobiliare del quartiere negli anni Novanta, che gli affitti diventati proibitivi per i nuovi arrivati spingono via i laboratori tessili. Che si spostano lungo l’asse Milano- Monza oppure – molti – servono il distretto tessile di Gallarate. Chinatown diventa sempre meno luogo di residenza cinese mentre comincia la proliferazione di attività commerciali all’ingrosso, che prendono il posto dei negozi italiani. I cinesi pagano in contante e bene, con i soldi raccolti grazie al guanxi, la rete familiare e di amicizie che è il perno tradizionale dell’imprenditoria cinese. Oggi grosso modo solo un’attività su cinque, nel quartiere, è italiana. Secondo il rapporto di Cologna, i segni dell’ulteriore sviluppo sono già in atto: «Sono sempre più i grossisti cinesi che scelgono di riconvertire l’attività in esercizi al dettaglio o si trasferiscono altrove», di fatto delocalizzandosi da soli e uscendo da un quartiere che non ha le caratteristiche per sostenere una concentrazione dell’ingrosso. Nel 2006 – il dato è della Camera di Commercio – solo il 18% delle 2.822 imprese individuali con titolare cinese della Provincia di Milano ha sede a Chinatown. Il risultato è che l’aumento delle attività all’ingrosso è superato, per vivacità, dal terziario, servizi e dettaglio, ormai non solo destinati alla clientela cinese. Dei 482 esercizi cinesi censiti a Chinatown (il triplo rispetto a 6 anni fa), il 53,3% sono all’ingrosso, con un incremento del 342,2% rispetto al 2001 (erano 64). Ma i dettaglianti sono ora 111, più che sestuplicati (+640%, erano solo 15 nel 2001), diversificati per tipologia: soprattutto alimentari, telefonia, abbigliamento, e si arriva all’enoteca, alla pescheria, alla rivendita di tofu fresco. Se a questi si aggiungono gli altri servizi – dalle librerie alle agenzie immobiliari o viaggi, dalle trattorie, 16, agli internet point’ si tocca un 41,3% di terziario al dettaglio. Altrove nella zona nord di Milano, i cinesi rilevano attività commerciali italiane – aggiunge Cologna – e continuano a gestirle senza caratterizzarle come «etniche». Sono bar, edicole, parrucchieri: «L’immigrazione cinese di più antica data sembra ormai arrivata al culmine», anche perché il bacino tradizionale di provenienza – la regione costiera del Zhejiang – ha ormai nel capoluogo Wenzhou un prospero, importantissimo polo di sviluppo. L’estinguersi delle manifatture cinesi permette di assorbire meno manodopera cinese per imprenditori connazionali, e gli immigrati dalla Repubblica Popolare si disperdono sul territorio, lavorano alle dipendenze di italiani: a maggior ragione se provenienti dalle nuove aree di emigrazione, le regioni settentrionali del Liaoning, Heilongjiang (aree di grandi industrie in via di smantellamento e di miniere) e dalla penisola dello Shandong, persone prive di una rete d’accoglienza radicata in Italia. Non sono dati che proiettano l’immagine del ghetto o di una comunità che si autoreclude: magari sulla bottega mettono prucchiera sull’insegna e parrucchire sul vetro, così come scrivevano tavola tiepida, mai cinesi – su scala nazionale, dato Istat – sono il secondo gruppo più numeroso che affolla i corsi di lingua italiana per adulti. Il passaporto resta cinese, ma l’Italia chiama. E Chinatown è un luogo di passaggio, non una necessità. Marco Del Corona