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 2008  febbraio 19 Martedì calendario

LE INFUOCATE AVVENTURE DI UN AMANTE

La Repubblica 19 febbraio 2008.
Quando Foscolo vi giunse nel marzo 1801, Milano stava diventando quella città liberissima, bonaria e festosa, che incantò la fantasia di Stendhal. La cortesia non si spingeva, nelle conversazioni, fino all´eroismo della noia, come accadeva in Francia. I cittadini milanesi e i militari francesi vedevano chi volevano e come lo volevano: amavano le donne se esse erano d´accordo, e le abbandonavano o venivano abbandonati quando il tedio cominciava a serpeggiare tra le parole. Ognuno viveva nella massima libertà; e l´esistenza era dedicata allo spirito, agli agi, e ai piaceri.
In quegli anni, apparve sulla scena una nuova generazione di donne. Molte dame del periodo austriaco avevano costumi liberissimi. Ma nessun viaggiatore poteva paragonarle alle contesse, alle marchese e alle ricche borghesi che nel 1801 e nel 1802 percorrevano il Corso in calesse o penetravano nel Caffè dei Servi e nel Caffè delle Sette Colonne: eleganti, brillanti, generose di sé, o almeno del proprio corpo. Nei ricevimenti serali, le loro braccia, il seno, le spalle erano scoperte: il corpo era sparso di fiori, di piume, di ori veri o falsi: una massa di capelli capricciosi o posticci pendeva da un finto baschetto militare; le vesti erano sciolte e aperte, lasciando intravedere gambe e cosce fasciate da sottilissime maglie color carne.
Inaugurato nel 1776, il Teatro alla Scala diventò il salotto mondano della città. «Ci vedremo alla Scala», era la frase abituale. Il vestibolo del teatro era il quartier generale dei damerini, che commentavano gli amori, le avventure, i pettegolezzi, gli scandali, e il passaggio dei cicisbei che davano il braccio a sempre nuove dame. La platea pullulava di ufficiali italiani e francesi, che si insultavano e si azzuffavano al minimo capriccio, o penetravano a forza nei camerini delle ballerine. Quaranta guardie nazionali fingevano di tenere l´ordine: c´erano ubriachi, scapestrati, donne travestite da militari; e molti spettatori tenevano superbamente il cappello in testa, così che gli spettatori delle file successive intravedevano a malapena lo spettacolo.
A nessuno importava quello che accadeva sulle scene: quasi nessuno seguiva l´opera seria o l´opera buffa o il balletto, o solo quando la prima donna gorgheggiava l´aria principale. Nei palchi sedevano le contesse e le marchese, voltando le spalle alla platea, girandosi per chiaccherare con un ufficiale o accostando agli occhi un binocolo rovesciato - segno di disgrazia per il corteggiatore. Qualcuno chiudeva il palco con una tenda: dietro la quale i mariti indossavano la vestaglia e le pianelle, bevevano, gustavano sorbetti, mangiavano, ridevano, giocavano a carte, conversavano ad altissima voce, come se fossero nei loro palazzi. Alla porta del palco bussavano, come scrive Giovanni Pacchiano, ammiratori, corteggiatori, spasimanti, vagheggini, innamorati, adoratori, pretendenti, cascamorti, zerbinotti, patiti, galanti, bellimbusti, ganimedi, elegantoni, mosconi, adoni, profittatori, ruffiani, ufficiali, seduttori - ed uno stuolo volubile e garrulo di dame che si fermavano un istante, ingoiavano un sorbetto, raccontavano un pettegolezzo, dicevano una battuta, e subito si precipitavano a chiaccherare nel palco vicino.
Tra quella folla c´era Ugo Foscolo, nella sua divisa di capitano. Parlava delle ferite, vere o immaginarie, che aveva riportato nell´assedio di Genova. «Aveva folti, ruvidi ed arricciati capelli che rendevano più energica l´espressione del suo estro poetico, e più orribile il suo cupo silenzio e la sua vampa d´ira. Questo suo crine e quelle sue folte ciglia e sopracciglia rossastre, erano simili a quelle selve che a seconda del sereno o del tempestoso cielo abbelliscono o inorridiscono un luogo. I suoi occhi erano grigi tiranti al cerulo, piccini, profondi, acuto vibranti»: così lo descriveva Giuseppe Pecchio. Sebbene si circondasse di un alone di misantropo, che detestava il bel mondo, amava e cercava la compagnia dei ricchi, che a loro volta erano attratti dal suo eloquio fluviale e dai gesti stravaganti e tumultuosi.
Presto le dame sarebbero state affascinate dalle Ultime lettere di Jacopo Ortis: «pazze e frenetiche per la lettura, - scriveva un maligno lettore di provincia - si strappavano il libro a furore e dicevano che non era mai stata scritta una cosa così bella. Ardevano di conoscere l´autore, lo figuravano per l´uomo più virtuoso e più tenero che vivesse: se costui qui venisse correrebbe pericolo di essere fatto come Orfeo in mille brani». Foscolo non aveva danaro, spesso non riceveva lo stipendio, frequentava le bische, giocava al faraone, viveva a credito: ma le battaglie e la letteratura lo avvolgevano di un fastoso alone romanzesco. Abitava in un quartiere elegante, a via della Spica 789, a pochi passi dal palazzo del conte Marco Arese, che sorgeva sul corso di Porta Orientale.
Il conte Arese era un uomo gentile, amabile e ironico. «Ho fatto rifare la facciata del mio palazzo - diceva - perché tutti l´amassero, e piace solo a me. Ho scelto mia moglie perché piacesse solo a me, e piace a tutti». Quella moglie amata da troppe persone era la marchesina Antonietta Fagnani, che aveva ventitre anni come Foscolo, ed era - secondo Stendhal - una delle sette donne più belle di Milano. Non so in quale conto tenere le incantevoli classifiche di Stendhal. Nei disegni rimasti, la Fagnani non sembra bellissima. Ma aveva «occhi neri e languenti», e un tono di voce «basso e lento», che secondo gli esperti era sempre accompagnata da un «cuore bollente». Sul suo temperamento erotico, ereditato da una madre licenziosissima, tutti erano d´accordo: amava molto, dicevano, amava ardentemente, e nei primi istanti che le entrava nel sangue la «scintilla» amorosa, non aveva pace finché non avesse «accostato l´oggetto del suo desiderio». «Un amante nelle sue mani - aggiunse uno scrittore più volgare - non era né più né meno di un cappone messo in sul piatto di un ghiottone. In pochi momenti non rimaneva che le ossa, e la fame tosto richiedeva altro cibo».
Antonietta Fagnani era colta, intelligente, spiritosa, e conosceva l´inglese e il tedesco. Per Foscolo tradusse il Werther. Vestiva anche lei l´uniforme amata dalle dame di Milano. Portava un berretto rosso: aveva le spalle e le braccia nudissime: una veste di lana bianca, fermata da un fermaglio romano al sommo delle spalle, discendeva in quattro ampie liste senza cintura. Quando la Fagnani si muoveva, quelle liste si scomponevano e si aprivano, «lasciando vedere come di furto e col passaggio repente del baleno, le linee e l´incarnato della sottoposta nudità». Una maglia rosea copriva la carne: «non certo a custodia del pudore, sebbene ad obliqua lusinga di desiderio e a tentazione del sangue».
I due vicini di casa si conobbero non sappiamo quando, forse nel luglio 1801: alla Scala, o in uno dei salotti, dove il tenebroso poeta dai capelli rossastri continuava la sua rapida ascesa sociale. L´amore durò qualche mese, fino al febbraio 1802. Le lettere di Foscolo, in parte divertentissime, permettono di ricostruire la storia nei minimi particolari, che assomigliano a quelli di un racconto galante settecentesco. Non dubito che i due giovani amanti passassero molta parte del loro tempo nel letto di Antonietta Fagnani, dove Foscolo giungeva colla complicità di una domestica: o in casa di Foscolo; o in uno degli appartamenti aristocratici offerti dalla complicità degli amici. Altre ore furono trascorse in conversazione nei caffè alla moda: il Caffè delle sette colonne e il Caffè dei Servi, specializzato in uno squisito caffè con panna, che secondo Stendhal era superiore «a tutto ciò che si trova a Parigi».
Quasi tutto il resto del tempo passò in altre amatissime occupazioni: progettare appuntamenti e sotterfugi, descrivere a vicenda il ritratto e la miniatura desiderati. I segnali amorosi erano innumerevoli: un libro, un fazzoletto scuro o rosso, o un pezzo di carta, o un drappo o un nastro appesi alla finestra di casa Arese, gesti col ventaglio, messaggi cifrati, lettere portate da un vecchio servitore o da una cameriera di lei, o dall´attendente del Foscolo, che il poeta descrisse con la stessa attenzione con cui Fra´ Galgario dipingeva i suoi ritratti di giovane bergamaschi. Quanto al ritratto della Fagnani, Foscolo non aveva dubbi: un paesaggio con qualche albero color fosco, il capo senza acconciatura, i capelli naturali, il braccio nudo, uno scialle nero o di un colore patetico, in mano o sulle ginocchia il Werther o l´Ortis, con il titolo leggibilissimo. Qualche volta abbiamo l´impressione che astuzie e sotterfugi non importassero nulla ai due sfacciatissimi amanti. Entrambi volevano che tutta Milano parlasse del loro «amore celeste», che sarebbe durato in eterno come la loro esistenza.
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L´editore Guanda ha appena pubblicato l´epistolario tra Ugo Foscolo e Antonietta Fagnani Arese (pagg. 286, euro 13,50): con una intelligente introduzione di Edoardo Sanguineti e un ricchissimo e divertente commento di Giovanni Pacchiano. Quasi tutte le lettere della Fagnani mancano; e Foscolo non ci fa sentire mai un´eco della voce di lei o intravedere un suo gesto. Il lettore moderno non trova un vero epistolario d´amore, come per esempio quello meraviglioso tra Goethe e Charlotte von Stein, dove mancano allo stesso modo i testi della corrispondente. Le centotrentadue lettere sono sopratutto una rappresentazione teatrale, dove Foscolo recita, con uno straordinario talento d´attore, tutte le parti suggeritegli dal suo temperamento. Abbiamo il malinconico, il folgorato, l´infuocato, il celestiale, lo sventurato, l´annoiato, lo straniero, l´apprendista suicida, lo sterniano. Il nome di Sterne non deve illudere: in tutte le lettere non c´è mai una traccia, un´ombra o un sospetto di ironia. Foscolo non sa ridere: sopratutto non sa ridere di sé stesso; e il suo Sterne diventa una specie di controfigura di Jacopo Ortis.
Il primo attore è il MALINCONICO: un personaggio, in quei tempi, di straordinario successo. Così inizia la prima lettera: «Io voglio scommettere cento contr´uno che vi siete dimenticata della magra e malinconica persona del povero Foscolo.... Sono stato malato, e malato gravemente; e non credo di esser guarito se non per bevere più amaramente nel calice della vita, di cui veramente sono stanco». E la seconda: «Il tuo povero amico stenta ancora a credere che tu, corteggiata da tanta gente del bel mondo, possa rivolgere gli occhi sopra di un giovane malinconico e sventurato il quale non possiede altro che un cuore che gli fu causa di pianto». Le lettere ripetono sempre la stessa nota: io sono infelice, sventurato, mortalmente triste: qualsiasi cosa possegga, sarò sempre infelice: già da bambino soffrivo di mestizia, e ora la sventura e le passioni hanno fatto diventare profondissima questa mestizia; mi pare di impazzire per la malinconia.
La malinconia si esprime sopratutto con le lacrime; un torrente, un fiume, un diluvio di lacrime, che hanno spesso una qualità spermatica, perché cercano di confondersi con quelle della Fagnani, fino a bagnarla e irrorarla completamente. In quei tempi, le lacrime esprimevano tutti i sentimenti: anche quelli comici; Leopardi e il fratello piangevano di commozione ascoltando Il Barbiere di Siviglia e Cenerentola. In una lettera di Foscolo, ci colpisce una frase: «Io sono forse il mio carnefice». Egli capisce di essere la sola causa della sua tenebrosa passione: essa non dipende dal carattere e dal temperamento; affonda in una colpa tremenda e misteriosa, che offusca completamente il suo cuore.
Sebbene si nutra di lacrime, la malinconia è un fuoco. «Un torrente di fuoco» lo divora: oppure una mano sconosciuta e bruciante gli stringe il cuore, fino a fargli perdere i sensi. Il fuoco non gli lascia requie. La passione va crescendo di minuto in minuto: egli teme di non resistere a questa violenza ardentissima: la passione brucia dentro di lui, eterna e onnipotente, e non può restare chiusa nel suo petto, perché vuole esplodere da tutti i sensi: essa continuerà anche quando Antonietta avrà dimenticato persino il suo nome: l´anima gli viene strappata dall´angoscia; la fantasia è accecata, al punto da farlo tremare per la propria vita. Foscolo pretende che la Fagnani provi lo stesso fuoco, e che i due fuochi si uniscano nel medesimo incendio. «Ti senti capace - le scrive - di darmi tutta la tua anima, di abbandonarti a me solo, di amarmi... e di non sentire in tutto l´universo che me solo, com´io non sento che te?».
Mentre passano i giorni, la fantasia di Foscolo trasforma Antonietta in una divinità terribile. Lei è il centro della sua vita, e senza di lei l´esistenza diventa un nulla. La trova dovunque: persino le camicie e i fazzoletti, le cose più quotidiane gli parlano di lei, che diventa insieme un ricordo incancellabile e un pauroso presente. In qualche lettera, sembra che egli abbia insieme il terrore e il desiderio di venire abbandonato. Vuole essere lasciato, e soffrire atrocemente. «Ogni momento ch´io vivo lontano da te mi pare il preludio di quella eterna separazione che ci aspetta». «Ogni bacio - ripete - è il preludio di quella eterna separazione che forse ci aspetta». Quando la dea onnipotente lo lascerà, egli le consacrerà una «celeste amicizia», nella quale reciterà tutti i ruoli: padre, fratello, amico, sposo, servo. «Io ti sarò tutto tutto».
Il pensiero della morte si insinua in ogni pensiero: come accadeva ad Jacopo Ortis, del quale negli stessi mesi Foscolo narra la storia, copiando frasi delle lettere ad Antonietta. Qualsiasi ipotesi preveda l´immaginazione, la fine è sempre la stessa: la morte. Il sepolcro è già lì, spalancato ai suoi piedi. Se lei lo lascerà, andrà a sospirarla nella solitudine, nascondendole il luogo della propria tomba, perché la sua vista non le suoni come un rimprovero. Se lei morirà, non saprà sopravviverle. L´idea della morte si unisce ai loro abbracci: «Se tu spirassi tra le mie braccia... qual altro rifugio mi resterebbe se non la tua sepoltura?». «Devo io dirti - insiste - il mio unico voto? quando i tuoi sospiri si trasfondono nella mia bocca e mi sento stretto dalle tue braccia... e le tue lacrime si confondono alle mie... sì; io invoco la morte; il timore di perderti mi fa desiderare che la vita in quel sacro momento si spenga in noi insensibilmente e che un sepolcro ci serbi congiunti per sempre». Talvolta, gli sembra che la morte sia già penetrata dentro di lui. Quando cammina, vacilla: ha nausea di ogni cibo: veglia la notte come un cervo amoroso: geme per ore; vive in una profonda apatia, con un dolore al capo, una febbre lenta e un sudore freddo, dimenticando le cose e le persone che un tempo gli erano care.
Durante la tempestosa rappresentazione teatrale, Foscolo tocca tutte le corde, e da ognuna di esse trae un suono lugubre. Ora esalta il proprio orgoglio e la proprie fierezza: ora proclama di amare furiosamente la gloria: ora lamenta la persecuzione di cui è oggetto: ora descrive minuziosamente le proprie malattie: ora parla del vuoto senza scampo della sua anima: ora dell´eterno esilio a cui è consacrato: ora dei suoi incubi: ora ricorda la sua condizione di straniero, cacciato da tutti i luoghi; ora rappresenta la vita come un teatro, dove recitano soltanto fantasmi. Talvolta, appare una nota più delicata: il tempo che gli scivola via tra le mani, sempre più lieve ed effimero. «Io scrivo... e ogni lettera ch´io traccio mi avvisa che la vita siegue con pari rapidità la mia penna. Il tempo vola e divora il creato. Passano l´ore simili alle nuvole cacciate dagli aquiloni. Tutto cangia, tutto si perde quaggiù... tutto! Quelle trecce che tu con tanta cura componi... vedi vedi!.. ti biancheggiano già tra le dita».[
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Non sappiamo cosa Antonietta Fagnani pensasse di questa fantastica rappresentazione. Credo che non avesse mai visto ed ascoltato nulla di simile. Sebbene traducesse il Werther, era una robusta lombarda, che amava le feste, la Scala, la sfilata delle carrozze sul Corso, i bei vestiti, il caffè con la panna. Pensava che i capricci amorosi andassero variati velocemente: altrimenti annoiavano. Anche lei si annoiò di quegli esclamativi e di quegli interrogativi inquietanti; e le sembrò che la rappresentazione di Foscolo diventasse monotona. Essere protagonista di un «romanzetto» epistolare non le piaceva: molto meglio un generale francese, o un tranquillo cicisbeo, o un ricco borghese.
Foscolo si accorse che l´amore di Antonietta Fagnani si affievoliva. In un´avventura casuale, prese una malattia venerea, di cui contagiò l´amante, che fu costretta a letto come lui. Poi si annoiò e le scrisse tre lettere d´abbandono: la prima, tenera: la seconda, stentorea; mentre nell´altra, farneticando la accusò di essere il Lovelace femminile e di avergli rapito la salute con un «orribile tradimento». Le liti si placarono: per qualche tempo tra i due si stabilì una specie di amicizia amorosa, durante la quale Foscolo scrisse l´ode All´amica risanata, dedicata «alle dive membra» di lei, che sorgevano «dall´egro talamo» dove lui l´aveva costretta. L´amicizia non fu eterna, come Foscolo aveva promesso. Decine di donne occuparono il letto che Antonietta Fagnani aveva lasciato. Del grande amore rimasero soltanto centotrentadue lettere, che Foscolo tenne gelosamente con sé, perché pensava di ricavarne un altro romanzo epistolare, che forse avrebbe rinnovato il successo dell´Ortis.
PIETRO CITATI