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 2008  febbraio 14 Giovedì calendario

Le forme della pubblicità all’ombra degli antichi. Il Manifesto 14 febbraio 2008. Negli anni ’80, una casa automobilistica lanciò in Italia una campagna pubblicitaria piuttosto kitsch intitolata Operazione Itaca: lo spot mostrava Ulisse che, finalmente tornato a casa, veniva a sapere che Penelope, invece di attenderlo pazientemente, era fuggita dal concessionario a cogliere un’occasione di finanziamento senza interessi per ben otto milioni

Le forme della pubblicità all’ombra degli antichi. Il Manifesto 14 febbraio 2008. Negli anni ’80, una casa automobilistica lanciò in Italia una campagna pubblicitaria piuttosto kitsch intitolata Operazione Itaca: lo spot mostrava Ulisse che, finalmente tornato a casa, veniva a sapere che Penelope, invece di attenderlo pazientemente, era fuggita dal concessionario a cogliere un’occasione di finanziamento senza interessi per ben otto milioni. Nel decennio successivo e con diversa sensibilità visionaria, Wim Wenders diresse alcuni spot per una ditta italiana di elettrodomestici nei quali i personaggi di celebri dipinti si animavano e, usciti dalle tele, lavavano i loro abiti ingrigiti dalla patina del tempo in una moderna lavatrice. Più di recente, nel commercial per un celebre whisky, un anonimo soldato del dipinto di Delacroix La battaglia di Taillebourg si infiltra come un surfista in una delle 36 Vedute del Monte Fuji del pittore di Ukiyo-e, Katsushika Hokusai, giunge tra i bagnanti della Grande Jatte di Seurat, e procede poi attraverso vari capolavori dell’arte moderna fino alla porta che domina La Victoire di Magritte: poco o per nulla visto in televisione, questo spot fu premiato nel 2006 al Festival della creatività digitale Imagina. Sono tre esempi tra tanti che testimoniano quanta importanza abbia nel discorso pubblicitario il riferimento all’arte e al «classico», sia esso costituito di materia linguistica verbale, di figure dell’immaginario, di visioni, di motivi o di forme che vivono nel tessuto culturale attraverso i tempi e le generazioni. Di «discorso» pubblicitario si tratta sempre, anche quando sono solo le immagini a parlare, in quanto ogni campagna innesca un processo enunciativo complesso che può passare attraverso differenti media: dalle immagini in movimento della televisione, alla fotografia, alla carta stampata, al web, alla cartellonistica. Tale processo mette in moto valori, passioni, ricordi che, nel caso in cui sia il classico a venire convocato ed evocato, sollecitano le pieghe della memoria collettiva e individuale. In tal modo i «classici» mostrano a pieno di essere quei testi che, come scriveva Italo Calvino, ci arrivano «portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume)». Questa consapevolezza permette di guardare in modo non banale ai «pezzi» di classicità presenti nelle forme contemporanee della comunicazione, ed è tale sensibilità ad avere animato i curatori della mostra Classico manifesto, in corso fino al 24 marzo presso la Triennale di Milano. Attraverso vari esempi, tratti da pubblicità italiane storiche e contemporanee, la mostra mette in evidenza come nelle immagini della grande comunicazione di massa riemergano spessissimo temi, figure, miti e simboli appartenenti al repertorio letterario e iconografico del «classico». In esposizione è un repertorio minuziosamente collezionato di manifesti e testi pubblicitari, insieme a quattro calchi di classici: una Venere di Milo, un David, un Discobolo, e il prezioso calco del Laocoonte dell’Accademia di Brera, restaurato appositamente per l’occasione, che vengono messi a confronto con le loro versioni contemporanee e con le rielaborazioni pubblicitarie da altri modelli antichi e moderni. Sulle opere esibite i curatori hanno elaborato riflessioni che permettono di leggere le tracce e le rielaborazioni del classico nella pubblicità in maniera paradigmatica, con conseguenze molto interessanti sia per chi fa invenzione pubblicitaria, intendendola come progetto a tutto campo e non semplicemente come retorica e propaganda persuasiva, sia per chi è invece solo fruitore della comunicazione, ma non si limita a indossare la veste di mero consumatore di merci o d’immagini. Le sezioni della mostra sono raggruppate a seconda di come il classico entri in gioco nelle varie opere. Innanzi tutto, le icone della cultura classica possono venire usate come testimonial di eccezione in forza della loro auctoritas: si pensi alle molteplici utilizzazioni di figure della mitologia greca che rivivono nella comunicazione pubblicitaria attraverso le rielaborazioni figurative pittoriche o scultoree realizzate in momenti diversi della storia. Monica Centanni si sofferma, ad esempio, nel catalogo su una pubblicità di moda che fa ricorso al modello della Afrodite accovacciata, una scultura perduta realizzata nel III secolo a.C. per Nicomede II di Bitinia di cui ci sono giunte diverse copie dall’epoca romana fino al Rinascimento. Gli «pseudoclassici» sono invece, come spiega Katia Mazzucco, quelle opere in cui «il classico si presta a essere plasmato, riadattato, funzionalizzato al messaggio commerciale attraverso processi di sottrazione e/o addizione formale, mascheramento, deformazione». il caso, ad esempio, di una pubblicità degli anni ’70 che cita la Creazione di Adamo di Michelangelo, in cui Dio passa all’Uomo un paio di jeans. Le allusioni costituiscono dei veri e propri ammiccamenti, come nel caso della pubblicità del più noto quotidiano sportivo italiano in cui un giornale arrotolato ricrea l’immagine del Colosseo. Il classico può rivivere «à la manière de», come quando il dipinto di Manet Un bar aux Folies-Bergères fornisce l’ambientazione alla pubblicità di uno storico aperitivo italiano. Può trattarsi infine di archetipi della memoria collettiva, ed è il caso della figura della canefora del repertorio classico e della portatrice d’acqua del repertorio folklorico tradotte nelle forme di una modella che porta la bottiglia di un celebre profumo. Due parole chiave reggono questi confronti: citazione ed engramma. La prima - come scrive Maria Rosaria Dagostino - viene intesa in tutta la suggestione del suo significato etimologico, che è «messa in movimento» di miti, simboli e immagini che costituiscono il patrimonio culturale condiviso, e che dunque, per dirla sempre con Dagostino, permette la «ri-creazione» di nuovi sensi e contesti. Il secondo viene inteso dai curatori, sulla scia di Aby Warburg, come traccia mnestica che lascia un segno sugli eventi e sulla materia vivente, e che libera energia a partire da questo stesso segno. La prospettiva della mostra sgombra dunque il campo da una concezione del citazionismo in chiave postmoderna, mettendo in questione la cattiva attualità priva di prospettiva storica che il postmoderno ha spesso indotto. Imparando a leggere il «classico manifesto», potremmo allora chiederci con cognizione in quale anfibologia culturale ci stiamo cacciando quando, indicando un paio di scarpe, pronunciamo all’inglese il nome della vittoria alata. PATRIZIA CALEFATO