ERNESTO ALOIA, Libero 17 febbraio 2008, 17 febbraio 2008
Corrado Alvaro. Libero 17 febbraio 2008. Ci sono scrittori dalle cui opere emana un senso di certezza, di verità conquistata una volta per sempre, talvolta persino contro le smentite dei fatti
Corrado Alvaro. Libero 17 febbraio 2008. Ci sono scrittori dalle cui opere emana un senso di certezza, di verità conquistata una volta per sempre, talvolta persino contro le smentite dei fatti. Sono i più facili da incasellare, i preferiti dai manuali di storia della letteratura. Altri invece non sanno o non vogliono liberarsi dal tormento del dubbio e non si curano di nascondere le proprie ambiguità, offrendo al lettore la propria crisi come testimonianza vivente. Di questo secondo gruppo fa parte Corrado Alvaro, la cui maturità artistica coincise con gli anni più tormentati e contraddittori del Novecento. Dopo essere stata a lungo legata al solo "Gente in Aspromonte" (1928) la sua attuale fortuna travalica finalmente i limiti dell’epopea rurale. Grazie al lavoro di recupero di un gruppo di case editrici (Rubbettino, Falzea, Cittadella) che ha riproposto i reportages sulla Turchia in via di rapida occidentalizzazione, dalla Germania, e soprattutto dall’Unione Sovietica, questo inquieto viaggiatore ci appare ora come testimone ideale degli anni terribili d’Europa. Eccolo in una nota diaristica, fortemente simbolica, databile al luglio 1934: «All’albergo di Berlino, nella città notturna, la paura, ma questa volta non una paura arcana, bensì qualcosa di crudele. Alle stazioni della Germania, sul vetro degli uffici, la scritta "Qui si saluta con Heil Hitler!". Le donne tedesche sono divenute tutte bionde». Lasciata la Russia staliniana, Alvaro stava rientrando nell’Italia fascista attraverso la Germania nazista. Su quel treno notturno era in viaggio, letteralmente, da un totalitarismo all’altro. Dopo la firma del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce e una breve esperienza militante presso "Il Mondo" di Giovanni Amendola, in seguito alla chiusura forzata della rivista nel 1925, Alvaro è costretto a lasciare l’Italia. Dunque, raggiunge la fervida Berlino pre-hitleNel 1938 Alvaro ritorna sull’argomento Russia. Ma adesso ciò che gli interessa non è più la descrizione di una società straniera o il quadro d’ambiente, bensì la deformazione che il totalitarismo è in grado di provocare sulla psiche umana. quindi naturale la scelta della forma romanzo. Nasce così "L’uomo è forte", in quella stessa primavera del 1938 in cui la trionfale visita di Hitler in Italia suggellava la definitiva stretta della fatale "amicizia italo-tedesca". Il titolo del romanzo avrebbe dovuto essere "Paura sul mondo", ma il censore ne pretese il cambiamento. Nel complesso, la censura fascista fu abbastanza benevola, limitandosi a chiedere la «moderazione» di qualche pagina e la pubblicazione di una avvertenza dell’autore in cui si precisava, a scanso di equivoci, che gli avvenimenti narrati si svolgevano in Russia. In Germania la pubblicazione fu vietata. Il romanzo si apre con Dale, un ingegneriana. Al rientro in Italia, tre anni dopo, i suoi rapporti con il fascismo sono quelli di un intellettuale non grato ma tollerato con mille riserve, sorvegliato e spiato e talvolta oggetto di tentativi di seduzione, di pressanti inviti al riallineamento. Per sfuggire a questa costante attenzione, viaggia molto, scrive reportages che La Stampa pubblica in terza pagina. Nel ’32 è in Turchia. Nell’estate del ’34, nell’Unione Sovietica. Negli anni Trenta il viaggio in Urss è la pietra di paragone degli scrittori europei. Nel pieno delle carestie indotte che provocarono milioni di morti, molti intellettuali sono portati per mano agli idilliaci "villaggi Potemkin" e dichiarano, come George Bernard Shaw, che i cittadini sovietici «sono i meglio nutriti d’Europa». Niente di tutto questo in Alvaro: appena uscito di stazione, gli basta guardarsi intorno per notare che i moscoviti vivono immersi in quella costante paura dello Stato che è la principale caratteristica dell’esistenza sotto un regime totalitario. re che dopo un lungo soggiorno all’estero, disgustato dall’ipocrisia della decrepita società borghese, decide di rientrare nel suo Paese, dove ha appena avuto luogo una rivoluzione: un mondo nuovo che gli appare in marcia verso un futuro più giusto e fondato su più autentici valori di fratellanza tra gli uomini. Ad attenderlo alla stazione c’è Barbara, sua amica d’infanzia, una giovane donna che all’inizio sembra incarnare i nuovi ideali: forte, indipendente, solare. Una donna che somiglia a una scultura del realismo socialista: e lui se ne innamora subito, ricambiato. La nazione in cui Dale si ritrova a vivere è imprecisata: Barbara è un nome diffuso in molte lingue, e gli altri personaggi non hanno nomi propri, ma funzioni: la Segretaria, il Direttore, l’Inquisito re. Ben presto, per l’ingegnere rientrato in patria per contribuire all’edificazione del mondo nuovo, cominciano le disillusioni. Ovunque si notano i segni delle stragi, delle lotte: la nuova società vede nemici dappertutto e nelle zone di confine i suoi Partigiani combattono ancora una feroce guerra civile contro le Bande. Il controllo dello Stato sugli individui è totale. Su questo punto, Alvaro è acutissimo e anticipa in forma narrativa alcune delle intuizioni che ritroveremo, dodici anni dopo, in saggi fondamentali come "Le origini del totalitarismo" di Hannah Arendt. L’intrusione della società totalitaria nella psiche umana è talmente profonda da spingerla a introiettare il controllo e la censura. Il dittatore non è più una persona, ma una istanza psichica: è dentro di noi. Nella tradizionale terminologia cristiana è la coscienza alla cui luce l’individuo compie il suo esame delle proprie azioni ed omissioni; in termini psicanalitici (peraltro estranei ad Alvaro) è il Super-Io. Anche se la Russia non viene mai menzionata, l’ambientazione - ampiamente debitrice dei reportages del ’35 - è chiaramente riconoscibile. però fondamentale il fatto che, quando approfondisce i processi psicologici del «dominio totale», Alvaro faccia riferimento quasi con le stesse parole ai diari che negli anni precedenti era venuto stilando sulla propria esperienza nell’Italia fascista. Già in una nota su Mussolini del 1932 si leggeva: «Egli è riuscito a prendere il posto di Dio o della coscienza. Lo si fa onniveggente, e si dimentica che questa onniveggenza è la polizia e gli informatori». Nel mondo nuovo di Dale e Barbara le cose non stanno diversamente. Romanzo forzatamente ambiguo, dunque, "L’uomo è forte", nel suo tentativo di descrivere la spietata lotta di ogni totalitarismo, contro la natura umana. Le circostanze, non permettevano altro che una denuncia generalizzata ma astratta. Dopo la guerra, le critiche da parte di intellettuali più che mai fedeli all’idea del ruolo guida dell’Urss, si sprecarono. Nel 1947 Giacomo Debenedetti, sull’Unità, accusò l’autore di avere consapevolmente aderito alla campagna antisovietica del fascismo. Alvaro ne fu amareggiato, cosciente com’era del carattere universale della sua analisi - che, a posteriori, sembra anticipare quella del ben più fortunato "1984" di Orwell - e di aver voluto rappresentare nient’altro che «quella malattia diffusa della paura, che colpì tutti noi, poveri uomini, dovunque l’uomo fu oppresso». Oggi, a settant’anni di distanza, i migliori critici contemporanei de "L’uomo è forte" ci sembrano essere stati quei funzionari della censura nazista che, intuendo la carica eversiva di quella denuncia proprio in quanto generale ed astratta, e dunque potenzialmente applicabile anche alla situazione tedesca, ne vietarono la traduzione e la pubblicazione sul territorio del Reich. Ironie della sorte, e della storia. Ernesto Aloia