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 2008  febbraio 17 Domenica calendario

Alla letteratura compete tutto ciò che è impossibile. Il Manifesto 17 febbraio 2008. Sarà perché teme gli aforismi, «quelle frasi la cui evidente ambizione è di racchiudere la verità», o perché rifugge dalle definizioni, che spesso «si ripiegano su se stesse», o forse perché è convinto che tra le parole e la realtà non ci sia un muro invalicabile ma una membrana trasparente e porosa: fatto sta che lo scrittore ungherese Péter Esterházy ha sempre fatto dello sperimentalismo formale e della ricerca stilistica la cifra della sua scrittura, dando vita a una serie di libri nei quali la denuncia della tranquillizzante «stretta di mano non casuale tra cause ed effetto» si traduce in una scrittura pantagruelica ed esplosiva

Alla letteratura compete tutto ciò che è impossibile. Il Manifesto 17 febbraio 2008. Sarà perché teme gli aforismi, «quelle frasi la cui evidente ambizione è di racchiudere la verità», o perché rifugge dalle definizioni, che spesso «si ripiegano su se stesse», o forse perché è convinto che tra le parole e la realtà non ci sia un muro invalicabile ma una membrana trasparente e porosa: fatto sta che lo scrittore ungherese Péter Esterházy ha sempre fatto dello sperimentalismo formale e della ricerca stilistica la cifra della sua scrittura, dando vita a una serie di libri nei quali la denuncia della tranquillizzante «stretta di mano non casuale tra cause ed effetto» si traduce in una scrittura pantagruelica ed esplosiva. Portavoce di un’arte «allergica alle menzogne, alla sporcaccioneria e ai tipi Tartuffe», e di una letteratura che, pur essendo radicata nel presente non vi sprofonda né lo corteggia, l’autore dei Verbi ausiliari del cuore e di Harmonia Cælestis continua a mostrare una grande esuberanza stilistica e formale, trattenuta dal suo sguardo ironico e disincantato sul mondo e riguardata da un «erotismo della lingua» capace di limitare il sentimento demiurgico di chi crea illusioni letterarie e personaggi romanzeschi. Pur rimanendo vincolato alla memoria comune sedimentata in ogni parola, Esterházy si appella con le armi dell’ironia ai lettori come interlocutori silenziosi, e allo stesso tempo si rivolta contro la propria «saggezza», perché, come ci ha spiegato, «la letteratura si occupa sempre dell’impossibile, e il possibile va lasciato ai burocrati». Abbiamo incontrato Péter Esterházy a Budapest, e con lui abbiamo discusso del suo lavoro. In un discorso tenuto al festival di Lucerna nel 2007, lei ha affermato che il lavoro dello scrittore ha inizio dove il linguaggio comincia a balbettare, quando non fa quel che vorremmo facesse. Mentre nella «Costruzione del nulla» ha sostenuto che lo scrittore è al servizio della lingua: allora, la scrittura è il campo di tensione tra la volontà dell’autore e la resistenza della lingua, o piuttosto scrittore è chi meglio obbedisce alla lingua? Nella scrittura c’è una tendenza contraddittoria, perché se da una parte lo scrittore è sottomesso alla lingua, tanto che si potrebbe dire che in qualche modo è creato dalla lingua, dall’altra è colui che lavora sulla lingua. Non si deve essere necessariamente scrittori per capirlo, e anche chi conosce più di una lingua, pur non essendo scrittore, sa bene che nella stessa situazione, usando lingue diverse, si dicono cose differenti: infatti, più che dire ciò che pensiamo, diciamo quel che sappiamo dire. Nel mio lavoro l’esperienza fondamentale è proprio quella della sottomissione, che si riflette per esempio nella consapevolezza della differenza che corre nello scrivere una frase al presente piuttosto che al passato, al singolare piuttosto che al plurale. Lei ha detto che lo scrittore può indossare la maschera di una sola lingua alla volta; eppure si direbbe proprio il contrario... Quel che intendo dire è che sebbene lo scrittore non lavori sul sì o sul no, ma sul «forse», implicando una moltitudine di possibilità e di prospettive, ovvero di maschere, tuttavia è sempre legato alla lingua madre. Lo scrittore, infatti, è colui che per definizione non può passare da una lingua a un’altra. Persino nel secolo delle traduzioni e della molteplicità, la letteratura continua a esigere un’unica prospettiva, e in questo è fondamentalista; così pure la lingua, che non vede nessun altro al di fuori di sé. Come diceva Wittgenstein, i limiti del linguaggio sono i limiti stessi dell’esistenza. «L’unica cosa che esiste senza dubbio è la finzione», lei scrive. Se adottiamo il punto di vista del lettore, ritiene che sia un atteggiamento produttivo quello di chi si interroga sul limite che separa la finzione poetica dalla realtà, oppure crede che il lettore farebbe meglio a immergersi completamente nel mondo letterario, prendendolo per vero? Il lettore fa sempre tutto ciò che desidera, anche interrogarsi sulla possibilità di distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è. Nei miei libri gioco spesso proprio su questa disposizione del lettore a interrogarsi, e molte volte voglio fargli credere che la finzione sia realtà e viceversa; ma la questione è interessante anche da un altro punto di vista: alcuni miei colleghi sostengono che, quando vogliono scrivere qualcosa sui loro personaggi, questi - come fossero persone in carne ossa - oppongono resistenza. In quanto scrittore ritengo che si tratti di una vera e propria cretinata. Eppure è proprio così! Non voglio dire che i miei personaggi desiderano una cosa piuttosto che un’altra, sono ben consapevole che la libertà di cui dispongono dipende dall’ordine logico che io stesso accetto, ma è pur vero che, stando alle regole della psicologia, al personaggio sono preclusi determinati comportamenti. Caduto il regime «comunista» - ha sostenuto più volte - in Ungheria è rimasto un «noi» vuoto di contenuti, una «parola magica citata in nome di una comunità inesistente», un serbatoio riempito soltanto dell’«altro» brandito come alibi e minaccia. Ritiene che la letteratura possa contribuire a dare corpo e sostanza a questo «noi»? In teoria sì, anche se la capacità e il potere della letteratura di costruire per suo tramite una comunità si indebolisce sempre di più, perché se la dittatura disponeva di una lingua comune, ossia del tacere, nella democrazia esistono solo linguaggi individuali. La questione che sta a fondamento del romanzo è proprio quella relativa ai modi in cui una parola personale può diventare la parola di una comunità intera. Non nel senso della sua capacità rappresentativa, ma relativamente alla possibilità che venga compresa: se la parola autentica è solo un balbettio personale, e se d’altra parte questo balbettio, proprio perché personale, non può essere compreso, occorre trovare delle vie affinché si possa rinunciare al balbettio senza perdere l’autenticità. Tra pochi giorni uscirà in Italia la traduzione di «Una donna». Preferirebbe che, per usare le sue parole, fosse presentato come «un elogio alla pagana allegria del corpo», oppure come l’ammissione della necessità che l’uomo ha delle donna, senza la quale è «un gigante monco nel letto»? Preferirei che fosse presentato come un’espressione del piacere pagano del corpo. Quel che il racconto restituisce è qualcosa di meno del rapporto tra uomo e donna, e ha piuttosto a che fare con le complicate situazioni che si creano quando si convive molto intimamente con la stessa persona e con il suo corpo. Il libro racconta la storia del rapporto tra due persone in modo tale che al lettore non sia concessa la possibilità di allontanarsi dal corpo dei protagonisti. Ci sono novantasette capitoli e ognuno di essi è il disegno di una vita, per cui non vale la pena domandarsi se si tratti di una sola donna o di novantasette diverse, se siano belle o brutte, perché anche nelle descrizioni del corpo più brutto emerge il desiderio, l’amore, la gioia pagana. Nella carne c’è qualcosa di fondamentalmente allegro, ma allo stesso tempo il corpo rimanda alla decadenza e alla morte Dietro invito del suo editore tedesco, lei ha scritto anche un libro sul calcio nel quale, oltre a sostenere che «i problemi del calcio sono i problemi del mondo», traccia alcuni interessanti parallelismi tra il calciatore e lo scrittore. Ce ne vuole parlare? Possiamo guardare alla scrittura, al calcio (ma anche alla matematica) come a dei giochi, nei termini della loro capacità di istituire un mondo e di creare leggi speciali che ne regolino il funzionamento. In questi termini, la letteratura non è altro che un rettangolo da gioco all’interno del quale ci sono delle parole: il libro è il mondo, e al di fuori di esso non esiste nient’altro. Quando i grandi calciatori giocano, nel loro campo di attenzione rientra solo ciò che riguarda il gioco, o almeno questo è quanto appare. Un esempio recente, infattio, ci smentisce: se Zidane si è imbestialito quando Materazzi ha inveito contro sua sorella, vuol dire che in lui parlava l’ uomo e non il calciatore: il calciatore non ha sorelle. Ma lo scrittore fuoriclasse è, secondo lei, quello che sa interpretare bene le regole o quello che ne istituisce di nuove? Direi che la scrittura creando un mondo ne stabilisce anche le regole; ma lo fa attraverso la lingua, che è nello stesso tempo uno strumento e un limite. La vera difficoltà sta nel fatto che l’autore non entra in un gioco già esistente, ma in un mondo di cui sta creando le regole, quelle regole che in qualche modo, però, sono preesistenti al gioco. E’ un po’ come se ogni scrittore si trovasse nella situazione del barone di Münchausen, che pretende di alzarsi afferrandosi per i capelli. A «Harmonia celestis» lei ha fatto seguire «L’edizione corretta», un libro sofferto, per scrivere il quale, come lei stesso ha sostenuto, ci sarebbe stato «un prezzo da pagare». Quale prezzo? Avevo paura di così tante cose nella stesura di questo romanzo che ora non ricordo più a quale mi riferissi precisamente. Forse al fatto che quando vogliamo oltrepassare certi confini dobbiamo «accogliere» in pieno il peso imposto alle parole dal loro uso, perché non è possibile usare la lingua in maniera ingenua, dimenticandone la storia. L’altro prezzo da pagare era lo «smascheramento»: è come se L’Edizione corretta rinfacciasse allo scrittore l’esistenza della realtà e gli indicasse la sua presunzione di riferirsi solo a un insieme di parole. E’ un libro in cui i volti sono maschere tessute di parole, narrato da un Io che non è solo una forma grammaticale, perché coincide con me stesso. Tutti i suoi libri sono innervati da una intensa ironia. Si tratta soltanto di un gesto per revocare la posizione del narratore, oppure di una disposizione personale che si riflette anche nella scrittura? O l’ironia è invece un elemento cui spetta il compito di tenere insieme i materiali del romanzo, pur nella loro eterogeneità? Ci sono elementi di verità in tutte e tre le ipotesi che suggerisce, ma direi che a partire dal ventesimo secolo l’ironia non è più tanto la conseguenza di una determinazione dello scrittore, perché sono le situazioni stesse a dettare l’ironia. Non ricordo chi l’abbia detto, e d’altronde non ha importanza, ma è proprio vero che siamo condannati all’ironia e che essa ha radici profonde e non funziona semplicemente come un filtro speziato attraverso cui vedere il mondo. Nel mio caso, poi, si tratta comunque di un’ironia costruttiva, e va distinta dal cinismo, che ride di tutto. La condanna all’ironia di cui parla rimanda in qualche modo a una celebre affermazione di Lukács, contenuta nella «Teoria del romanzo»: per Lukács l’ironia è «la mistica negativa dei tempi senza Dei». La convince questa definizione? La frase di Lukács è senz’altro molto bella, e forse non è un caso che per dare sostanza all’idea secondo la quale non è il soggetto a essere ironico ma la situazione, io di solito uso una frase che fino a un certo punto le si avvicina: l’ironia, per me, è quella situazione in cui preghiamo un dio inesistente affinché preghi per noi. E’ quantomeno curioso che lei mi abbia fatto scoprire di essere un lukácsiano: non vorrei ritrovarmi a rispecchiare la realtà! Questa conversazione si è valsa della traduzione della professoressa Ilona Fried, che ringraziamo. GIULIANO BATTISTON