Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  febbraio 18 Lunedì calendario

Il mercato nella vasca di Greenspan. Affari e finanza 18 febbraio 2008. L’età della turbolenza è il titolo significativo della voluminosa autobiografia di Alan Greenspan, l’ex Governatore della Banca Centrale americana

Il mercato nella vasca di Greenspan. Affari e finanza 18 febbraio 2008. L’età della turbolenza è il titolo significativo della voluminosa autobiografia di Alan Greenspan, l’ex Governatore della Banca Centrale americana. Che in un discorso pubblico parlò, accennando al boom di Wall Street di allora, di "esuberanza irrazionale". L’idea, dice, gli era venuta nella vasca da bagno, come pare che spesso gli capiti. Fatto sta che allora il bagno, a causa di quella "petite phrase", rischiò di farlo proprio Wall Street. Dopo di che, non solo Greenspan non si azzardò più a esprimersi in termini come quelli, ma praticò una politica monetaria a dir poco "esuberante". Tra i critici di quella politica è un altro ex Governatore della Fed, Paul Volker il quale ha detto rudemente che una situazione così pericolosa non la si era vista in America da cinquant’anni, e che vi erano tre probabilità su cinque di una crisi di portata mondiale. Per fortuna questa profezia non si è verificata. Anche la crisi che oggi infierisce è lontana dalle proporzioni che giustificherebbero la rituale evocazione del 1929. Occorre tuttavia, mantenendo la calma chiedersi, soprattutto, se si tratta di episodiche insorgenze di un sistema sano o di difetti strutturali che richiedono una revisione del "modello". A questa categoria mi pare appartenga la densa analisi di Luigi Spaventa della quale Affari & Finanza ha pubblicato un estratto il 21 gennaio scorso. Senza entrare nelle tecnicalità della sua argomentazione (non sarei in grado di farlo) mi pare che due siano le principali degenerazioni del modello che, a suo avviso, ne hanno svelato la vulnerabilità. Le cito in ordine inverso rispetto a quello scelto dall’Autore. Prima. Il coinvolgimento delle banche nel funzionamento del modello. Ripeto che non sono in grado di intervenire nell’analisi tecnica. Mi pare però di capire che una serie di difetti di informazione, valutazione, coordinamento e controllo abbiano concorso a determinare un meccanismo cumulativo di trasferimento del rischio di credito, di per sé funzionalmente positivo, ingigantendone la crescita, con conseguenze "inflazionistiche" sulla leva finanziaria, cioè sull’espansione del credito praticata dalle banche. Seconda. C’è stata una degenerazione degli incentivi nell’erogazione del credito "in un ambiente privo di regole come quello americano". I profitti che si traggono dalla quantità di credito hanno affievolito ogni monitoraggio qualitativo. La persistenza di bassi tassi d’interesse ha sospinto la domanda e i prezzi delle case. Mi pare che questi elementi strutturali si inquadrino in quel fenomeno più generale, benedetto da Greenspan una volta uscito dalla vasca da bagno, nonché dal suo successore. E cioè il colossale indebitamento americano: dei risparmiatori verso le banche, dello Stato verso i contribuenti, degli Stati Uniti verso il mondo. Ora, io credo che questo fenomeno ha a che fare non soltanto con la politica monetaria del Governo e con il comportamento delle banche. Nella spinta generale all’indebitamento c’è una componente che di solito è o sottintesa o trascurata. Parlo del mutamento strutturale della grande impresa capitalistica, con l’avvento di un gruppo dirigente contraddistinto da comportamenti e motivazioni molto diverse da quelle che si erano andate profilando nella prima metà del secolo scorso. Per una serie di ragioni, demografiche e tecnologiche, nella seconda metà del secolo è entrata in crisi l’impresa fordista a struttura piramidale e a vocazione istituzionale, quella che Galbraith aveva battezzato tecnostruttura. E’ subentrata la grande impresa a rete flessibile e in tempo reale, con vocazione nettamente finanziaria. Il governo della prima era costituito da una élite manageriale e si basava sulla collaborazione di tutti i gruppi interessati all’impresa: azionisti, tecnici, lavoratori, clienti (stockholders). Dopo le trasformazioni radicali dell’impresa costituite dalla rivoluzione tecnologica delle informazioni e dalla globalizzazione dei movimenti di capitale il governo dell’impresa è tornato nelle mani degli azionisti (shareholders): ovviamente non della massa dispersa, ma del gruppo concentrato che è in grado di esercitare il controllo. E’ cambiata la struttura. Sono cambiate le strategie e le motivazioni L’obiettivo non è più quello di uno sviluppo generale e complessivo dell’impresa (profitti, salari, espansione settoriale e territoriale, eccetera) condiviso essenzialmente da tutti i gruppi, ma ridiventa quello della massima valorizzazione del capitale finanziario. La tecnostruttura cede il posto ad una plutostruttura Con due fondamentali implicazioni. 1) il cosiddetto brevetermismo, e cioè l’orientamento degli investimenti verso il massimo profitto nel più breve termine; 2) il ricorso massiccio al credito. Su questo punto convergono gli interessi della nuova élite dell’impresa e quelli del mondo bancario. Il fulcro di questa vera e propria "controffensiva capitalistica" è situato negli Stati Uniti. La politica monetaria e fiscale americana la ha incoraggiata e promossa. E’ soprattutto a questa politica "iperkeynesiana" e non soltanto alle tecnologie della new economy, pur se molto importanti ma fin troppo esaltate, che si deve il boom americano degli anni novanta. Questa rivoluzione dell’impresa capitalistica si intreccia e si combina con la globalizzazione dei movimenti di capitale, che moltiplica le possibilità di investimenti ad alto e rapido tasso di profitto nei paesi emergenti, esaltando il fenomeno dell’indebitamento. L’aspetto più macroscopico è il combinato disposto disavanzo americano surplus cinese, che alimenta un processo paradossale di iperindebitamento del paese più ricco del mondo. Non c’è bisogno di sottolineare la vulnerabilità che ne deriva. La più recente crisi appartiene alla categoria dei drammi annunciati. Montare a cavallo di questa ennesima perturbazione per diramare un ennesimo messaggio di "crisi finale del capitalismo" è certamente la cosa più vana che si possa immaginare. Sembra che questi messaggi, nonché atterrirlo, gli giovino. Ma gioverebbe riflettere su ciò che accade senza pregiudizi, né catastrofici né apologetici. Un solo esempio, tratto dalla lettura di un recente saggio di Silvano Andriani pubblicato su "Argomenti Umani": la distorsione che alla dinamica dei flussi finanziari e alla relativa formazione di rendite deriva da una allocazione e distribuzione del reddito sempre più favorevole al capitale. Non è questo, in ultima analisi, un "luogo di riflessione" almeno altrettanto degno della vasca da bagno del signor Greenspan? GIORGIO RUFFOLO