Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  febbraio 18 Lunedì calendario

La nuova élite dei matematici imprenditori. Affari e finanza 18 febbraio 2008. Frate Luca Pacioli, illustre matematico quattrocentesco, autore del De Divina Proportione illustrato da Leonardo, compaesano e amico di Piero della Francesca (anche lui valente matematico), trovò utile scrivere il trattato De Computis et Scripturis per sviluppare il concetto della partita doppia che ha costituito il cuore della ragioneria moderna

La nuova élite dei matematici imprenditori. Affari e finanza 18 febbraio 2008. Frate Luca Pacioli, illustre matematico quattrocentesco, autore del De Divina Proportione illustrato da Leonardo, compaesano e amico di Piero della Francesca (anche lui valente matematico), trovò utile scrivere il trattato De Computis et Scripturis per sviluppare il concetto della partita doppia che ha costituito il cuore della ragioneria moderna. Perché lo scrisse? Certo perché esisteva un mercato, fatto di mercanti e uomini di banca, in grado di leggere una trattazione rigorosa di problemi di contabilità. E perché di tali problemi egli, matematico e frate francescano, aveva pieno dominio. Tutta la pluricentenaria avventura dei mercanti italiani si svolse all’insegna del primato culturale rispetto ai loro concorrenti. Già a cavallo tra dodicesimo e tredicesimo secolo il pisano Leonardo Fibonacci metteva a disposizione dei mercanti, al cui ceto anch’egli apparteneva, i nuovi metodi aritmetici che aveva appreso in un suo soggiorno nel porto di Bugia, in Tunisia. Il celebre ”Liber Abaci’, riscoperto dalla matematica finanziaria in tempi recenti, introdusse in occidente la cosiddetta numerazione indiana, che noi conosciamo come numerazione araba e che per suo merito sostituì quella romana. Fibonacci ne mostrava la rilevanza per la contabilità, per la conversione di pesi e misure, per il calcolo degli interessi, per il cambio delle monete. Applicando quei metodi ed altri algoritmi che facilitavano il calcolo mentale rapido, i figli dei mercanti italiani, messi a sette anni a imparar la grammatica e l’abbaco, erano in grado di usare entrambi una volta entrati nella mercatura, verso i tredici anni. Senza quelle rimarchevoli e diffuse conoscenze intellettuali, non sarebbe stato loro possibile ottenere il dominio delle reti mercantili del proprio tempo con il sistema delle lettere di cambio, che permettevano di trasferire fondi su lunghe distanze senza dover spostare moneta contante, e di praticare forme assai sofisticate di prestito a interesse non soggette all’accusa di usura da parte degli ambienti ecclesiastici. Né sarebbe loro riuscito scambiarsi per lettera dettagliate informazioni sulle condizioni delle varie piazze commerciali europee ed extra europee sulle quali operavano. Una sofisticata cultura letteraria e matematica fu dunque il segreto della rinascita italiana nel medioevo e del mantenimento dl primato culturale e finanziario italiano nel Rinascimento, quando il predominio commerciale era stato perduto. Nelle città italiane uomini di chiesa, letterati, matematici e mercanti erano parte della stessa classe dirigente. Spesso ricoprivano anche alte cariche politiche. Era un ceto omogeneo, nel quale le scoperte scientifiche si diffondevano velocemente anche tra coloro che non si occupavano attivamente di scienza. Cosimo il Vecchio si faceva tradurre Platone. Sant’Antonino, vescovo di Firenze, discettava di cambi e sofisticate operazioni finanziarie come un consumato mercante, mostrando di padroneggiarne appieno gli intricati calcoli aritmetici. Non sappiamo ed è forse meglio non saperlo, quanti tra gli uomini (e le pochissime donne) che sono a capo delle prime cinquecento imprese italiane abbiano oggi la laurea. Sappiamo invece che, nel 2005, il 97 per cento degli amministratori delegati delle prime 500 società quotate alla Borsa di New York aveva una laurea e che tra loro il 20% aveva una laurea in ingegneria. Un altro venti per cento era laureato in amministrazione aziendale. Ma è forse più interessante apprendere che tra le prime quindici società americane quotate in borsa, due avevano a capo laureati in matematica. Ed erano la General Electric, che occupa uno dei primissimi posti, e la Verizon Communications. Negli ultimi anni, dopo la conquista che sembrava definitiva, da parte dei pupilli delle famose business schools, delle posizioni di comando delle aziende americane, si delinea una tendenza, che appare più chiara nei settori tecnologicamente di punta, a raggiungere posizioni di vertice, e spesso di controllo azionario, da parte di matematici molto giovani. Il caso più eclatante e più noto è quello dei due ragazzi prodigio che hanno fondato Google e ne tengono ancora saldamente in mano il controllo. Sergey Brin è matematico e figlio di due professori universitari di matematica, emigrati negli anni ”70 in Usa dall’allora Unione Sovietica. Larry Page è anch’egli matematico e figlio di matematici universitari. Insieme hanno portato la nuova arte del "data mining" a livelli di applicabilità tali da permettere loro di trasformare qualitativamente il settore dei motori di ricerca, acquisendo un vantaggio sui concorrenti che è finora risultato incolmabile. Nessuno dei due si è sognato di frequentare una business school. Non ne hanno avuto il tempo e forse hanno così evitato di farsi imbozzolare in routines mentali obsolete. Lo stesso sembra essere accaduto ad altri protagonisti dei settori high tech americani. Prendiamo la Microsoft, il caso più celebre. I suoi due fondatori, Bill Gates e Paul Allen, hanno studiato matematica applicata a scuola e all’università (che nessuno dei due ha completato, preferendo passare all’azione senza indugi). Lo stesso curriculum possiede Steven Ballmer, che ha sostituito Gates alla testa della Microsoft. Ma lui la facoltà di matematica di Harvard l’ha finita. Non sarebbe difficile andare avanti nella enumerazione di casi simili. Ed è quasi troppo facile spostare l’attenzione verso il settore dei nuovi intermediari finanziari, dove matematici e astrofisici dominano il campo dell’arbitraggio basato su applicazioni di modelli matematici affidate a calcolatori di potenza forse superiore a quella necessaria per la fisica nucleare. Sono note le avventure e disavventure in questo campo della LTCM, che contava due premi nobel tra i suoi fondatori. Ma è meno noto al grande pubblico il caso, ancor più rimarchevole, di James Simons, professore di matematica all’MIT e in altre università di elite, autore di articoli matematici premiati con il più elevato riconoscimento dopo la medaglia Fields, e fondatore e proprietario di Renaissance Technologies, una società di gestione di hedge funds che nel 2006 lo ha remunerato con la bellezza di 1500 milioni di dollari, e con cifre simili nei due anni precedenti. Dall’ alto di queste cifre, James Simons si permette anche qualche educata battuta sui laureati delle business schools. La sua società, come tutti i quantum traders, ha ricevuto qualche ruvido buffetto dai mercati a partire dall’agosto scorso, ma il ritorno della volatilità, che è indispensabile per applicare fruttuosamente i metodi che i quantum traders hanno elaborato, le ha permesso di riprendere quota rapidamente, anche se, forse, la drastica caduta delle possibilità di ottenere somme giganti in prestito sui mercati per finanziare l’arbitraggio, costringerà Simons e i suoi simili a moderare le proprie aspettative di guadagno. Parlare del settore finanziario quando si esamina il ruolo degli imprenditori matematici nel capitalismo degli ultimi anni era inevitabile, perché di esso costituiscono un esempio quasi caricaturale. Ma rischia di essere fuorviante, di sminuire l’effettiva portata del fenomeno. Esso è invece ancora più ampio, se si includono nell’analisi anche altre scienze pure, come la biologia e le altre scienze della vita. Anche qui coloro che in prima persona hanno effettuato ricerche culminate in pubblicazioni scientifiche di avanguardia si sono mostrati e si mostrano capaci di sfruttare le proprie conoscenze scientifiche per creare direttamente imprese e di governarle su cammini di crescita rapida, talvolta impetuosa, senza aver bisogno del tramite di manager prodotti dalle grandi business schools. E’ tempo di chiedersi se il trend è destinato a durare, magari rinforzandosi e diffondendosi ad altri settori. Forse siamo testimoni di un fenomeno sociale simile a quello che fiorì nell’Italia del Medioevo e del Rinascimento: il crearsi di una classe dirigente omogenea, globalmente integrata, che comprende non solo i matematici e i biologi imprenditori americani ed europei, ma anche quelli israeliani di origine russa, parecchi degli oligarchi russi, e numerosi nuovi magnati indiani, dirigenti del partito comunista cinese, creatori di società farmaceutiche brasiliane. Certo, anche loro avranno bisogno, per dimostrare il proprio successo, di vini, automobili veloci, superyacht, vestiti e scarpe di lusso fabbricati in Italia. E di farsi un giro a Capri, Venezia, Cortina e Costa Smeralda, magari comprando in loco ville e palazzi. Possiamo, per compensare la debacle del nostro sistema educativo, consolarci con considerazioni come queste. Ma quanti dei nostri imprenditori saranno in grado di far parte della nuova oligarchia globale? Ai tempi di Fibonacci, Luca Pacioli e Cosimo dei Medici, dal duecento al seicento, sarebbero stati molti, molti di più. MARCELLO DE CECCO