La Stampa 18 febbraio 2008, STEFANO SEMERARO, 18 febbraio 2008
Mac sospetto ideale. La Stampa 18 febbraio 2008. La notizia è che John McEnroe ha ucciso un suo fan troppo insistente
Mac sospetto ideale. La Stampa 18 febbraio 2008. La notizia è che John McEnroe ha ucciso un suo fan troppo insistente. Per toglierselo di torno l’ex numero uno del mondo del tennis non ha usato un metodo qualunque. Lo ha impalato con una macchina che distribuisce preservativi, spezzandogli la colonna vertebrale. Credibile, no? Se state pensando che sì, in effetti prima o poi una cosa così da quel pazzo scatenato di McEnroe ve l’aspettavate, allora non perdetevi la puntata di «Csi New York» in onda il prossimo 12 marzo su Italia 1. Il plot è quello che avete appena letto, Mac Jesus in persona recita un doppio ruolo nell’episodio che in originale si intitola «Comes around» e che negli States è andato in onda il maggio scorso (fermi lì con YouTube, godetevi la storia in italiano). No, il finale non ve lo raccontiamo. Per i critici americani la performance attoriale dell’eterno moccioso non è esattamente da Academy Awards, ma che importa. Se Alberto Tomba ha recitato in un action-movie, se Serena Williams sogna di fare l’attrice, se sul piccolo e grande schermo si sono affacciati anche Coppi, Bartali, Carnera, Pelè, Maradona, Totti e Gattuso; se Carlo Pedersoli si è trasformato in Bud Spencer e ora persino Jean Todt e Michael Schumacher si danno ai peplum, Jonny Mac merita quantomeno una chance. Quello che importa è l’idea geniale degli autori della serie televisiva. Perché se c’è una «celebrity», sportiva e no, che tutti sono disposti a vedere nel ruolo del folle omicida, bè, quello è John McEnroe. Nessuno, venti anni fa, avrebbe scommesso un centesimo su O.J. Simpson assassino. E infatti O.J. è stato assolto. In un processo reale, quale giuria non condannerebbe John McEnroe? Serial winner, serial killer. Nessuno come Mac ha incarnato l’anima profonda, scissa, paganiniana e per certi versi criminale dello sport individuale. McEnroe è il bambino che tutti abbiamo dentro. Quello che piange, disperato, perché ego e mondo non coincidono. Quello che straccia le regole. McEnroe è un pazzo che crede di essere John McEnroe. Ha sempre avuto molti talenti - volée perfette, servizio al curaro, dritti e rovesci che volavano leggeri come brigantini spinti dagli alisei - il più grande di tutti è la sua capacità usare la frustrazione, la sua rabbia congenita come una dinamo. Litigava e vinceva. Maltrattava arbitri, giudici di linea, oggetti e idee. Un «Sa dove le sa può infilare, quella racchetta?», sibilato alla moglie del Presidente del Queen’s Club che lo voleva sloggiare dal campo, gli fruttò l’odio dell’Inghilterra. Un nazione che sotto sotto amava la sua anima ribelle, la sua faccia tosta nel vomitare, come spiegò il sarto delle campionesse Ted Tinling, «le verità scomode che noi inglesi preferiamo tacere». stato il modello dichiarato dell’«Amadeus» nevrotico di Milos Forman, addirittura del Coriolano shakespeariano di sir Ian McKellen. Il Johnny Rotten del tennis, infilato nel decennio ruvido del tatcherismo. Il supermoccioso che ha trasformato lo sport educato ed elitario dei gesti bianchi in quello maleducato ma popolare dei gesti osceni. Nell’81, quando vinse il primo dei suoi tre Wimbledon prendendosi la rivincita su Borg, l’All England Club rompendo una tradizione ferrea si rifiutò di accoglierlo fra i soci: in semifinale aveva definito l’arbitro Ted James «la pattumiera del mondo». Un colpevole nato. E un alienato. Un giorno lo beccarono in ginocchio sull’erba, berciante contro il Ciclope, la scatola di ferro che gli aveva chiamato fuori un servizio. «Vi sembrerò paranoico - si giustificò - Ma quella macchina sa chi sono». Un profilo mentale che farebbe mugolare di piacere un criminologo. persino un ex cocainomane. Mac è nato a Wiesbaden, in Germania, dove John senior, figlio di un immigrato irlandese diventato avvocato con la scuola serale, era al seguito della Nato. cresciuto a New York, fra Manhattan e il Queen’s, assorbendone lo spirito caustico, impietoso, nevrotico. Prima di bivaccare un paio di anni a Stanford ha frequentato la Trinity High School, la più antica della città, fondata nel 1709: era quarterback della squadra di football, playmaker di quella di basket, ala di quello di calcio. Segnava molto, distribuiva intelligenza, era un mostro in quasi tutto, calcoli matematici compresi. Si costruiva una psicosi. «Il nostro sogno era quello di crescere un piccolo Arthur Ashe - ha ammesso una volta mamma Kay - Ma in fondo siamo molto contenti anche così». Con i media da giocatore non ha mai legato, anzi. Alistair Campbell, il futuro portavoce di Tony Blair che lavorava al «Daily Mirror» un giorno gli chiese se fosse contento di fare da esempio di maleducazione per milioni di giovani. «Guarda il tuo Mirror», gli abbaiò dietro Mac. Pare - lo racconta Tim Adams in «Essere John McEnroe» - che abbia poi aggiunto: «Il potere che avete è triste». Abbandonata, con vari ripensamenti, la racchetta, Johnny però ha dimostrato di saperlo usare con disinvoltura, il quarto potere. Marito glamour di Tatum O’Neal e poi della cantante Patty Smyth (la quasi omonima). Commentatore televisivo fra i più apprezzati, gallerista e uomo mediatico supremo, conduttore per un annetto di un quiz televisivo sulla Abc, «The Chair», la sedia. E quando hanno dovuto fare il restyling del museo di Wimbledon, gli inglesi, i suoi ex-grandi nemici, hanno infilato dentro la replica degli spogliatoi il suo ologramma sguaiato. cresciuto, Mac, non è invecchiato. Non è guarito. Neppure dopo dieci anni di analisi a cui si è sottoposto dopo il divorzio con la O’Neal, per non perdere la tutela sui figli. «Certe volte», ha raccontato un assistente di scena della ABC per «The Chair», «Quando John era molto stanco dopo ore di registrazione, andava nel parcheggio, estraeva la racchetta da tennis e si metteva a colpire l’aria». Ai giudici di linea sussurrava: «Bella chiamata di merda. E se provi a farmi rapporto vedrai cosa ti succede...». Ha sempre avuto bisogno di un rivale, meglio: di una vittima. E di un pubblico, «degli spettatori che non si limitano a guardarti, ma vogliono possederti». Un attore nato. Colpevole o innocente, signori della giuria? STEFANO SEMERARO