La Stampa 18 febbraio 2008, MARCO ZATTERIN, 18 febbraio 2008
Dalle legioni di Adriano alla Nato. La Stampa 18 febbraio 2008. Quando le legioni romane attraversarono l’Adriatico, e cominciarono a conquistare i monti impervi di quelli che oggi chiamiamo i Balcani centrali, incontrarono gente che parlava una serie di dialetti che il tempo avrebbe trasformato nella lingua albanese
Dalle legioni di Adriano alla Nato. La Stampa 18 febbraio 2008. Quando le legioni romane attraversarono l’Adriatico, e cominciarono a conquistare i monti impervi di quelli che oggi chiamiamo i Balcani centrali, incontrarono gente che parlava una serie di dialetti che il tempo avrebbe trasformato nella lingua albanese. La regione era nota come Dardania, e alla fine del terzo decennio dopo Cristo comprendeva l’odierno Kosovo e parte di Serbia, Albania e Macedonia. L’aquila imperiale la sottomise in fretta, poi nel 284 ne fece una provincia autonoma dove, fra l’altro, nacque Costantino il Grande. Era abitata da guerrieri rozzi, agricoltori efficaci, uomini dalla fede debole che non si fece fatica a convertire al Cristianesimo quando venne il momento. Di serbi neanche l’ombra. Quelli arrivarono più tardi, intorno al VI-VII secolo, allorché l’impero d’Occidente era ormai un ricordo. Venivano dalla Lusazia, terra situata fra Germania orientale, Polonia e Boemia, fu una migrazione provocata da ragioni tanto politiche quanto climatiche. Constantinopoli, capitale del nostro vecchio mondo, accettò che si insediassero nei Balcani, immediatamente a Nord della zona kosovara. Lì cominciarono i guai e i dissidi, fu un processo lento e doloroso. Il seme dell’odio trovò terra fertile per una pianta che non ha smesso di germogliare. Impiegarono cinquecento anni per assicurarsi il pieno dominio di quella zona, espandendosi verso Sud e marginalizzando le genti di lingua albanese, nei confronti delle quali nutrivano un rancore spontaneo e ricambiato. Lo Stato serbo fu proclamato nel XII secolo e durò fra vicende alterne sino a metà del Quattrocento. Poi cadde nel sangue davanti alla dirompente avanzata ottomana. Cruciale fu la prima battaglia del Kosovo, combattuta da centomila uomini il 28 giugno 1389. I serbi vennero sbaragliati dagli «infedeli», ma questo non gli strappò subito lo scettro. Il calendario era pigro in quei giorni bui. Ci volle un secondo scontro omonimo 59 anni più tardi, una seconda sconfitta, perché la mezzaluna celebrasse il trionfo. I turchi si fermarono sull’Adriatico intorno al 1450 e presero a governare i Balcani applicando uno spietato «divide et impera». Dispensavano privilegi sulla base di religione, etnia e lingua. Gli albanesi, e gli altri gruppi che optarono per l’Islam, si assicurarono un trattamento migliore rispetto ai serbi cristiano-ortodossi. Oltre a questo, si impose una collaudata pratica di Istanbul, quella di affidare la sicurezza e l’esercito alle minoranze, perché gli altri avrebbero potuto dimostrarsi inaffidabili. Temevano con ragione le insurrezioni. La fiducia data ai popoli albanesi si dimostrò ben funzionale agli interessi della Sublime Porta. Sebbene fossero luoghi in prevalenza cristiani, gli storici tendono a sottolineare la tradizionale permeabilità della fede della gente dei Balcani, sempre - per quanto attiene alla religione - una terra di nessuno, in cui il confronto fra Chiesa dell’Est e Chiesa dell’Ovest aveva indebolito il Credo piuttosto che rafforzarlo. Gli albanesi, compresi i kosovari, si convertirono massicciamente al verbo di Allah, e fecero carriera nei ranghi ottomani. Divennero maggioritari, forti. A spese dei serbi, ovviamente, che pagarono il triste pedaggio per oltre quattro secoli. Lo sgretolarsi dell’impero della Sublime Porta, lacerato da una profonda crisi interna, risollevò le rivendicazioni indipendentiste degli slavi. La lunga stagione ottomana aveva tolto loro libertà, identità e status religioso. Alcuni grandi monasteri erano stati trasformati in moschee. Si sentivano offesi. In altre parole, dalle due battaglie del Kosovo in poi, la storia aveva regalato loro soltanto disastri e voglia di rivalsa contro i popoli albanesi. I rapporti nei Balcani meridionali divennero roventi com’era inevitabile. Dopo il 1870 il confronto nel cuore dei Balcani si fece costante e brutale sino all’indipendenza della Serbia (1878) in seguito alla quale migliaia e migliaia di profughi albanesi si riunirono nel Kosovo. Furono anni drammatici di pulizia etnica tentata dai turchi ai danni dei serbi e di vendette. Quando nel 1912, crollata formalmente la Grande Turchia, il Kosovo fu conquistato dai militari di origine slava, decine di migliaia di musulmani fuggirono verso Sud. Era un circuito a flusso continuo e alternato. La grande guerra portò l’ennesima macelleria. Nel 1915 l’Austria-Ungheria e la Bulgaria conquistarono il Kosovo accolti dagli albanesi come liberatori. Ma nel 1918 fu la regola serba ad imporsi nuovamente. 12 mila kosovari furono massacrati, recitano le cifre ufficiali. Alla fine degli anni Trenta, gli albanesi in Serbia erano stati dimezzati. Naturale che, nel 1940, la resistenza salutasse fascisti e nazisti come liberatori, e che una parte accettasse con deprecabile entusiasmo di aderire alla divisione albanese delle SS. Era l’occasione buona per riprendere a massacrare i serbi. Tornata la pace, una pace relativa, la sinistra e gli slavi ripresero il controllo del Kosovo, che - conservata la maggioranza albanese - ottenne un regime di autonomia nella federazione jugoslava. Alla morte del maresciallo Tito, nel 1980, il nazionalismo trovò però modo di riaffermarsi quale regola del giorno. Il governo del post comunista serbo Milosevic cancellò ogni prospettiva di autonomia e ogni ambizione politica dei kosovari, «eredi diretti dei turchi ottomani». Altro giro, altre rappresaglie. Il panserbismo cominciò la sua cavalcata nei tempi moderni proprio dal Kosovo e generò l’ultimo - per ora - giro di pulizia etnica ai danni dei kosovari. Fu la guerra, con l’intervento occidentale, sino a che i bombardamenti Nato del 1999 trasformarono il Kosovo in un protettorato Onu. Per paura delle rappresaglie 100 mila serbi lasciarono il paese. In base alla risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza, a Pristina fu insediato un governo e un parlamento provvisori sotto il protettorato internazionale Unmik e Nato. Lo status del paese è rimasto in bilico, legato a doppio filo con Belgrado, sino alle elezioni del novembre 2007, quando l’ex miliziano Tachi ha cominciato la marcia verso l’indipendenza. Il resto è storia di oggi. Drammatica, perché di domani tutto si può dire. MARCO ZATTERIN