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 2008  febbraio 17 Domenica calendario

IL NON VOTO E IL GIOCO DEGLI SCRANNI

La Stampa 17 febbraio 2008.
Dov’è finita l’antipolitica? Fino a ieri un’onda ribollente pareva sul punto di sommergere il Palazzo; ma è bastato indire un nuovo appuntamento elettorale, perché l’onda fosse risucchiata indietro. Via dai tg, via dalla pubblica attenzione. Sicché di punto in bianco siamo tornati con gli occhi al vecchio rito: sondaggi, alleanze, candidati. Errore: l’antipolitica non è affatto un reperto del passato. Basta prestare orecchio al vocio degli italiani, ascoltare gli argomenti di chi non andrà a votare, o voterà turandosi due volte il naso. Del resto che altro si può fare? Se non nutri più stima nei politici, il sistema non t’offre vie d’uscita: scegli il meno peggio, o altrimenti scegli di non scegliere.
Qui affiora tuttavia il secondo errore commesso dai partiti. Un errore prospettico, ma altresì semantico. Definendo «antipolitica» gli umori del popolo di Grillo, di Stella, di Travaglio, ne ha colto la carica demolitrice, lo sdegno verso i privilegi della casta, ma non anche l’energia positiva da cui pure quel popolo è percorso. Tale energia si risolve in un’istanza di democrazia diretta, senza filtri, senza deleghe in bianco. A suo modo vi riecheggia la critica al parlamentarismo formulata da Rousseau, ma vi riecheggia inoltre una domanda di partecipazione, un interesse fresco e nuovo verso le sorti della cosa pubblica. Insomma l’antipolitica è politica, però una politica in prima persona, per ogni persona. Non a caso Grillo le ha dato corpo e fiato con tre leggi firmate dagli stessi cittadini.
Il guaio è che le nostre istituzioni non offrono spazio agli slanci individuali. Concepite dopo il trauma d’una lunga dittatura, disegnano un sistema tutto sbilanciato verso la democrazia indiretta, dove l’unico vero strumento popolare è il referendum, peraltro solo abrogativo. Da qui la frustrazione che attraversa gli italiani. Da qui l’urgenza di correggere il sistema: nessuno può tenersi in equilibrio se ha una gamba lunga ed una corta. Come? Per esempio introducendo il referendum propositivo. Oppure l’istituto americano del recall, che permette di revocare anzitempo parlamentari e governanti inetti. O ancora garantendo una corsia preferenziale alle leggi popolari. O infine emulando l’esperienza del bilancio partecipativo, che a Porto Alegre dura fin dal 1989, e che consegna ai cittadini il 25% delle decisioni di spesa.
 in queste riforme l’autentico banco di prova cui è chiamata la politica. Poiché è tempo di programmi elettorali, può servire rievocarle. Ma è anche tempo di voto, e allora c’è un’ultima riforma da proporre, per restituire voce a chi non ha voce. Questa: contiamo il voto, ma contiamo altresì il non voto. E infine rapportiamo i seggi in palio ai soli voti espressi. Dunque un migliaio di posti fra Camera e Senato, se tutti gli elettori si recano alle urne; 700 posti, se per esempio astensioni e schede bianche sommano il 30%.
Un’idea bislacca? Mica tanto. In primo luogo, già nel testo licenziato dai costituenti il numero di deputati e senatori era variabile rispetto alla consistenza della popolazione. Poi nel 1963 fu introdotto un numero fisso; questo però non ha evitato che la legislatura del 2001 si consumasse con 12 scranni vuoti. In secondo luogo, si danno anche altre ipotesi in cui il non voto decide l’esito del voto: succede per il referendum, quando non viene raggiunto il quorum. In terzo luogo, s’otterrebbe con un colpo solo la riduzione dei parlamentari, che ogni partito auspica a parole, salvo poi incartarsi quando si tratta di misurare la profondità del taglio, o salvo rinviarlo alle calende greche. Ecco, facciamolo decidere volta per volta ai cittadini, quanti devono essere i loro delegati in Parlamento. In quarto luogo, saremmo almeno certi che gli eletti hanno davvero un popolo alle spalle. In quinto luogo e infine, se il loro seggio dipende dalla capacità di persuadere i cittadini che la gita verso l’urna non è uno spreco di fatica, hai visto mai, magari finirebbero per darsi una mossa. E magari anche chi per solito non vota finirebbe per votare.
Michele Ainis