La Stampa 17 febbraio 2008, GIULIA ZONCA, 17 febbraio 2008
Gli sponsor delle olimpiadi. La Stampa 17 febbraio 2008. Trentasei ore di silenzio, molte passate dentro una sala conferenze blindata
Gli sponsor delle olimpiadi. La Stampa 17 febbraio 2008. Trentasei ore di silenzio, molte passate dentro una sala conferenze blindata. Il comitato Olimpico cinese, i rappresentanti del governo, mezzo politic bureau di Pechino e una squadra di avvocati per rispondere al boicottaggio di Steven Spielberg, un nome che molti dei presenti non avrebbero mai pensato di accostare all’idea di crisi prima di sprofondare dentro una riunione fiume. Sono usciti con un sorriso e parole pacate suggerite dai nuovi consulenti di immagine, lo studio Hill & Knowlton, assi della comunicazione che riassumono il lavoro in uno slogan «il tuo successo, il nostro marchio». Perché è lì che è arrivata l’onda d’urto alzata dalle dimissioni del più famoso regista al mondo, contro i marchi, contro i soldi, contro gli sponsor travolti da richieste di umanità e vincolati da contratti rigidissimi per pubblicizzare il loro nome a Pechino 2008. In tutto sono 64, dodici sono i top, quelli che hanno l’esclusiva in stadi e piscine e sommati ai partners, altre aziende che si fregiano dell’ufficialità siglata dal comitato olimpico, fanno 19: il numero degli sponsor marchiati da Dream for Darfur, l’associazione umanitaria guidata da Mia Farrow. Il sistema è complesso e nessuno vuole definirlo boicottaggio, al momento è un voto in condotta espresso in lettere, dalla A alla F e non ci sono A. un malloppo di 101 pagine che comprende le raccomandate spedite a ogni singola ditta e le risposte di ha concesso una replica all’ingombrante domanda: «Come vi ponete rispetto alla posizione della Cina nella questione Darfur?». In molti hanno avuto la stessa idea della Cina, hanno sorriso e il direttore dell’associazione, Jill Savitt, non si stupisce: «Siamo all’inizio, per ora ci siamo limitati a un action day, un giorno di protesta in cui concentrare le nostre forze, ma la decisione di Spielberg ha creato scompenso e tra un po’ potrebbe anche succedere che uno si senta meglio a bere Pepsi invece di Coca Cola». La butta lì, citando uno dei marchi più famosi e anche uno di quelli meglio messi nella lista, sta tra i meno cattivi con una D intermedia che testimonia la buona volontà: hanno donato 750 mila dollari a un fondo destinato al Darfur. Non sono i soli, altri hanno seguito l’esempio, la General Electrics (C+ in pagella) ha investito 2 milioni di dollari in beneficenza e ha dimostrato di essere attenta alle questioni umanitarie. Solo che il gruppo Dream for Darfur pretende molto, per ottenere una A bisogna «esplicitamente contestare la politica cinese» il che è in netto contrasto con i contratti firmati. La Adidas ha speso 200 milioni di dollari per avere un posto in prima fila, così come gli atleti hanno speso gli ultimi due anni a mettersi in sesto per arrivare alla perfezione nei 15 giorni decisivi e ora tutti premono per una presa di posizione. Le Olimpiadi del discontento sono più che politiche, sono diventate militanti e ora c’è qualcuno che inizia a chiedersi se sia giusto pretendere dai protagonisti sportivi o dai finanziatori di esporsi così. C’è pure qualcuno che non ha voglia di farsi strattonare, Josefa Idem, alla settima Olimpiade, ha dichiarato: «Non è giusto pressare perché tizio o caio si schierino. Ho pensato a lungo alla situazione dei diritti umani in Cina, ma se era un problema così grave non avrebbero dovuto assegnare i Giochi a Pechino. Ora è sport, non può andare così». Gli attivisti non mollano, aumentano e Hollywood è una lobby potente. Prima Mia Farrow, poi Spielberg, ora Quincy Jones, il grande capo dei premi Grammy, incaricato di comporre la colonna sonora delle cerimonie, ha chiesto tempo per capire che posizione prendere e otto premi Nobel hanno firmato una lettera destinata al governo cinese per chiedere «responsabilità». Loro, i padroni dei Giochi, sorridono e scrivono cronologie dei loro rapporti con il Sudan, esibiscono «attenzione per i problemi del Darfur» e ci mettono tutta la buona volontà nel definirsi «molto dispiaciuti per le scelte del signor Spielberg che rimangono personali». Come le opinioni degli atleti costretti da qualche federazione a stare zitti o come i blog, prima messi fuori legge e ieri riabilitati dal Cio con il solito decalogo allegato. Niente foto, immagini, interviste ad altri, solo un diario privato. Ma non anche loro ripetono «non esistono rischi di boicottaggio», la parola è bandita persino dallo staff di Dream for Darfur che cerca via pacifiche e mette molti con le spalle al muro: «C’è troppa attenzione su questo evento per non sfruttarla, è così dal 1968». Ed è dal 1936 che i Giochi sono così contestati, senza boicottaggi. GIULIA ZONCA