La Repubblica 17 febbraio 2008, STEFANO MALATESTA, 17 febbraio 2008
Quella nuvola di fumo vendetta dei vinti. La Repubblica 17 febbraio 2008. Quando i Platters cantavano Smoke gets in your eyes («All who love are blind/ When you heart´s on fire/ You must realize/ Smoke gets in your eyes»), la voce del loro solista si abbatteva sulle ragazze come uno tsunami di pura sensualità
Quella nuvola di fumo vendetta dei vinti. La Repubblica 17 febbraio 2008. Quando i Platters cantavano Smoke gets in your eyes («All who love are blind/ When you heart´s on fire/ You must realize/ Smoke gets in your eyes»), la voce del loro solista si abbatteva sulle ragazze come uno tsunami di pura sensualità. Ma era il fumo delle sigarette ad arrossare gli occhi e a annebbiarli, non le ceneri del cuore andato in fiamme. Una volta, verso i sedici anni, i ragazzi - meno le ragazze, ma si sarebbero rifatte con l´età - erano perennemente avvolti, durante i momenti intimi, da una nuvola di fumo che per delicatezza veniva definita sempre azzurrina. Non riesco a immaginare un incontro, una conversazione, un qualsiasi scambio con l´altro sesso senza l´aiuto delle sigarette, che venivano a salvarti dalla catastrofe come i san bernardo andavano a ripescare sotto la neve i montanari infortunati portando al collo la botticella di cordiale. In un modo o nell´altro, perché ti piaceva fumare o perché faceva parte di quei riti che sembravano di passaggio e che diventavano stanziali, ai quali non ti potevi sottrarre pena la cacciata dal branco, la sigaretta ti attendeva da qualche parte come qualcosa di inevitabile, quando stavi uscendo dalla pubertà: una sorta di emancipazione, almeno così appariva, molto più vasta e significativa dell´avere cambiato i pantaloni, da corti a lunghi. A differenza del sigaro, che in ogni senso era troppo - troppo grosso, troppo ingombrante, troppo vistoso, troppo caro - la sigaretta si presentava sotto le false apparenze del moderno e del metropolitano (in campagna non fumavano sigarette, almeno così credevamo, solo pipa e immondi sigari). Gli intellettuali, gli artisti, gli scrittori, almeno quelli che passavano per tali, fumavano come dannati e bevevano anche, non c´era uno scrittore americano che non fosse un alcolizzato. E il principe dei dandy, il grande Marcel Duchamp, che meno lavorava e produceva più diventava famoso e ammirato, ci ha lasciato questa frase leggermente criptica ed elegantissima, che dimostra come il tabacco non fosse estraneo all´avanguardia: «Le cose sono nel fumo, l´arte sta negli anelli». Sono trascorsi esattamente quattrocentocinquant´anni anni da quando i semi del tabacco vennero portati dal Messico in Europa (gli storici distinguono il primo europeo che materialmente si sia imbattuto nel tabacco dal primo che l´ha descritto, dal primo che l´ha seminato, e dal primo che l´ha fumato). Nessuno allora poteva immaginare che da questi piccoli semi potesse nascere un fenomeno di massa così vasto, così sconvolgente e così sottovalutato nella sua estrema pericolosità. E qui le colpe vanno divise tra i fabbricanti di sigarette, che verso la fine dell´Ottocento hanno reso planetario il vizio immettendo sul mercato i pacchetti già confezionati, stimolando un aumento inaudito (rispetto a prima) del consumo di una merce che ha la stessa pericolosità della dinamite a scoppio ritardato; e gli Stati, che un tempo per ignoranza e avidità e negli ultimi decenni per puro cinismo, a partire da Richelieu, il primo a tassare il tabacco, hanno sempre visto in quell´abitudine perniciosa una fonte primaria di entrate (Napoleone, come è noto, davanti alla richiesta di proibire il fumo, aveva risposto: «Sono pronto ad abolire il fumo che fa male in cambio di un´altra qualsiasi merce che faccia bene e che dia allo Stato gli stessi introiti»). Negli anni Cinquanta del secolo scorso, nei soli Stati Uniti, oltre la metà della popolazione fumava sigarette e un terzo dei fumatori era composto da donne. Guardando i vecchi film di allora, quello che ti colpisce di più nelle pellicole italiane è l´assenza delle auto lungo le strade, mentre nei film americani è il continuo accendere e spegnere delle sigarette, come se fumare fosse uno dei pochi momenti in cui valeva la pena di vivere. E i grandi attori davano l´esempio: l´immagine mitica di Humphrey Bogart era così legata alla sigaretta, che senza il mozzicone pendulo sul labbro inferiore stava peggio che nudo. Le sceneggiature scritte dalle vecchie volpi di Hollywood prevedevano quasi sempre che a contrastargli il passo fosse un tipo il più sgradevole possibile e che fumasse il sigaro nella stessa volgare maniera con cui lo fumava negli anni Trenta un gangster come Al Capone. Non tagliando la punta con le forbici o con l´apposito tagliasigari, ma addentando una delle punte e poi sputando. Un interprete eccellente di questa parte si rivelò E. G. Robinson, che nella vita reale era un fine e colto signore, collezionista di opere d´arte moderna; ma che nel film risultava di una straordinaria antipatia, masticando più che fumando il tabacco in modo che il sigaro appariva e spariva fra le sue grasse labbra. Molti anni più tardi ho avuto conferma, in Sicilia, che per gli stessi mafiosi italiani i boss americani dovevano assomigliare, nei modi e nel rapporto con i sigari, a quegli attori che Hollywood aveva imposto sul mercato, come Robinson. Stavo girando a Palermo per la televisione tedesca un film sulla storia dell´Hotel des Palmes, dove si era tenuto, nel 1956, un famoso incontro tra capi della Mafia e capi di Cosa nostra per decidere di entrare nel mercato della droga, e tutto, nell´organizzazione e nella preparazione delle scene, era andato liscio. Ma al momento di girare la scena dell´incontro, le comparse che interpretavano i boss americani piantarono una grana sindacale. Erano quasi tutti piccoli mafiosi in libera uscita, soddisfattissimi dei doppiopetti gessati e dei cappelli che aveva preparato la costumista. Ma dov´erano gli avana che i boss americani si ficcavano in bocca, tirandoli fuori da monumentali scatole, come tutti loro avevano visto decine di volte nei film di Hollywood? Una proposta di mediazione, con i toscani al posto dei cubani, venne sdegnosamente respinta e solo quando sulla tavola del salone dove giravamo si materializzò una costosissima scatola con trenta Romeo y Julieta le comparse si decisero a tornare al lavoro. Questa immagine dei sigari avana come di qualcosa riservato ai gangster ha dato sempre molto fastidio ai veri cubani, perché ricordava l´isola quando era diventata il bordello degli Stati Uniti, con Lucky Luciano che tesseva le fila della malavita. Così, una delle prime mosse propagandistiche di Fidel Castro, ancora prima di diventare el leader maximo, di sbarcare nell´isola dalla Granma e di dare inizio alla rivoluzione, fu di farsi fotografare, lui e il Che, che era argentino ma aveva lo stesso orgoglio dei cubani per i loro sigari, mentre fumavano sigari con grande soddisfazione: un piacere che secondo Castro doveva essere esteso alle classi popolari, tenute lontane dai sigari, come da quasi tutto, per il loro costo. Da allora a Cuba, per evitare di far crollare il mercato internazionale dell´avana, si praticano due prezzi: quello ufficiale per i gonzi e quello del mercato nero gestito dalle stesse autorità. curioso come Castro, così attento a favorire l´orgoglio cubano - quella assoluta convinzione, in buona parte giustificata, di essere completamente diversi da tutti gli altri abitanti dei Caraibi - abbia poi commesso un passo falso per pura vanità. Una volta insediatosi all´Havana, diede ordine di sostituire la musica operistica, in particolare italiana, che le famose sigaraie ascoltavano da sempre con grande diletto mentre confezionavano a mano i sigari sotto i capannoni, con brani dei suoi interminabili, alquanto boriosi discorsi. Le sigaraie entrarono immediatamente in sciopero, l´unico nella storia recente dell´isola che non solo non sia stato represso, ma che sia riuscito a ottenere quello che voleva. Dopo pochi giorni sotto i capannoni ripresero a diffondersi, salutate da un grande applauso, le romanze di Puccini. Una volta, oltre ai gangster, questi prodotti di lusso erano riservati ai magnati, che li brandeggiavano, minacciosi come cannoni di una corazzata, nei consigli di amministrazione. L´unico che sia riuscito, facendo il verso ai magnati, a disinnescare l´aspetto intimidatorio dei grandi sigari e a trasformarli, con la sua ironia, in qualcosa di simile a giocattoloni per grandi, è stato Groucho Marx, quello che diceva: «Non entrerei mai in un club che mi ammettesse tra i soci». Quando i grandi fabbricanti di tabacco non sono più riusciti a nascondere o a minimizzare le informazioni sui danni del fumo e finalmente ci si è resi conto che un fumatore aveva cinquanta volte la possibilità di essere attaccato dal cancro, contro una del non fumatore, e il fumo stava in testa alla classifica dei killer dell´umanità, c´era da aspettarsi un calo drastico di tutto il tabacco, non solo delle sigarette. Invece molti fumatori che non ce la facevano a smettere si sono riversati sui sigari, tentando di convincere se stessi che i sigari potevano essere un´alternativa possibile, perché non ingerivi il catrame contenuto nella carta e ti salvavi i polmoni, non aspirando il fumo. E qualcuno ha ricordato una vecchia battuta di Marlene Dietrich, che negli ultimi anni aveva abbandonato le sigarette (che da giovane le avevano trasformato la voce, rendendola roca e affascinante) e ora fumava sigaretti: «La sigaretta è una nevrosi, il sigaro un amico». Ma per quanto possa far ancora piacere accendere un toscano in ricordo dei vecchi tempi, è molto meglio gettarlo via dopo un paio di boccate. Come gli zulù dell´Ottocento in tempo di guerra, sigari e sigarette non hanno mai fatto prigionieri, ma hanno collezionato cadaveri. STEFANO MALATESTA