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 2008  febbraio 18 Lunedì calendario

IN DIREZIONE DELLA POESIA E DEL SOGNO

La Repubblica 18 febbraio 2008.
Occhi, volti, sguardi interroganti o ciechi nascono improvvisi all´incrociarsi del gran gesto nero che copre per metà l´immenso dipinto, e ancorano al primissimo piano lo scorrere ritmato, sulla superficie bislunga, delle figure misteriose che popolano la spazialità della tela; mentre laggiù, al fondo, i colori, liquidi e intrisi uno dell´altro, intessono una danza senza freni o spaventi. Sembra il lavoro d´un giovane, pieno com´è di incanto, di slancio, di rischio persino: ed è invece uno dei grandi quadri dell´età più tarda di Joan Miró, dipinto nel 1974, quand´egli dunque aveva passato gli ottant´anni, e tanta pittura gli era scesa dalle mani per il mezzo secolo e oltre che era allora durata la sua vicenda. Figure e uccelli nella notte, si chiama quel dipinto: che entrò presto nelle collezioni del Pompidou di Parigi, e dal museo francese raramente s´è da allora allontanato. Oggi questa grande tela, oltre sei metri di larghezza per quasi tre d´altezza, conclude clamorosamente la bella antologica (Miró: la terra, a cura di Tomàs Llorens) che Ferrara Arte organizza a Palazzo dei Diamanti in collaborazione con il museo Thyssen-Bornemisza di Madrid, dove la rassegna si trasferirà in estate; e dà misura dell´importanza e della singolarità dei prestiti, pubblici e privati, che da tutto il mondo sono giunti a Ferrara in quest´occasione.
Miró è uno dei pittori più amati dello scorso secolo; e dei più prolifici - avendo praticato con quasi eguale intensità disegno e pittura, grafica ceramica e scultura, cercando sempre transiti e contaminazioni fra le varie tecniche; e numerose sono state dunque, anche in Italia, le mostre a lui dedicate, in anni a noi prossimi. Fra esse, quella odierna si qualifica certamente come d´assoluto rilievo, tanto da richiamare per impegno la vastissima retrospettiva ordinata sull´artista in occasione del centenario della nascita, promossa nel 1993 a Barcellona. E il tema della terra - una terra mai da Miró dimenticata, come luogo primigenio ove affondano le sue radici e, più in generale, luogo di nascenza e d´aggregazione di ogni verità - che la mostra di Ferrara si dà come filo conduttore, è davvero capace di costituire, nei lunghi anni della sua pittura, una sorta di basso continuo attorno al quale si allineano le singole voci, i singoli dipinti: a partire dai più antichi, ovviamente, ove la terra natale, la fattoria di Montroig, i suoi orti e animali e contadini, ne costituiscono l´avvio anche iconografico.
Osteggiato a lungo dal padre sulla via di quello strano mestiere che voleva per sé - essere un pittore - Miró ha infine cominciato da qui, dipingendo un vero ottico pertinacemente scrutato e riprodotto tal quale sulla tela. «La calligrafia d´un albero o di un tetto, foglia per foglia, ramo per ramo, un filo d´erba alla volta, tegola dopo tegola»: queste le sue prime ossessioni; che inseguì al punto di farsi spedire, quando era intento a Parigi a un cruciale dipinto di quel tempo, La fattoria, iniziato in Spagna e terminato nella capitale francese dove s´era nel frattempo trasferito, «un po´ di vera erba di Montroig in una busta, per poter finire il quadro».
Di questo periodo aurorale, di grandissima seduzione, la mostra di oggi presenta Il solco e La contadina, due quadri che si collocano ai due estremi cronologici del suo primo tempo, il primo databile al 1918 circa, il secondo del ”22-´23. Miró era allora già stabilmente a Parigi, e vi iniziava quelle frequentazioni che l´avrebbero condotto a fiancheggiare la prima età del surrealismo. André Masson, Antonin Artaud, Michel Leiris furono allora fra i suoi sodali; poi presto si legò ad Aragon e a Breton, e da quest´ultimo fu sollecitato a partecipare alle prime mostre surrealiste, a partire da quella del 1925, e a pubblicare le sue opere su La révolution surréaliste e su Minotaure.
Iniziava così la conversione di Miró alla nuova avanguardia: «La scoperta del surrealismo ha coinciso per me con una crisi della mia pittura e la svolta decisiva che mi ha fatto abbandonare il realismo per l´immaginario verso il 1924», dirà. D´altra parte, nel corso degli anni, furono molte le occasioni nelle quali Breton, pur senza mai ripudiarlo, parlò di Miró con sospetto: «l´inconveniente di Miró, scriverà ad esempio, sta nel fatto che la sua personalità sembra essersi fermata alla fase infantile, il che non è sufficiente a difenderlo dall´incostanza, dallo spreco e dal gioco». Nello stesso tempo, furono diverse e notevoli già negli anni Venti le occasioni in cui Miró pretese per sé un´indipendenza dal pensiero e dagli atteggiamenti del gruppo; e ad esempio le sue preferenze letterarie, tanto importanti nel processo ideativo dell´opera, s´indirizzarono sempre piuttosto verso Apollinaire (il cui purismo fu presto guardato con sospetto da Breton) che non a Rimbaud o a Lautréamont.
Ma ancor più, fu il sentimento quasi sacrale di cui Miró investì la pittura a scavare fra lui e i compagni di strada parigini un solco profondo: un sentimento maturato nel tempo della prima e cruciale vocazione coltivata - appunto "accanto" alla terra, ai suoi segni e alle sue luci - nella casa paterna di Montroig, e speso nella trepida ricerca di una verità, non solo di natura, avvistata al termine d´un lungo processo di elaborazione (tutti i suoi rari dipinti giovanili occupano mesi, o anni, di lavoro). E nulla meno che questo assomiglia ovviamente alla folgorazione, alla casualità, all´azzardo, alla cecità che segnano sempre il modo della creatività surrealista. La cui stessa fondamentale pratica dell´automatismo appartenne a Miró solo imperfettamente: strumento, semmai, per liberare la fantasia in associazioni asintattiche, non certo nume cui delegare intero il senso dell´opera, ricca ancora e sempre di memorie visive e di ostinata volontà di forma.
Il surrealismo fu dunque per Miró un transito, non un approdo: un transito grazie al quale la sua pittura dalle radici antiche e mai dimenticate (che scendono al tempo romanico della sua terra, al punto di confine fra tardogotico e rinascimento italiano - dal Beato Angelico al Sassetta - o ancora alla fissità iconica di Bisanzio, ad un Oriente ancora più remoto, al medioevo germanico e a Bosch) si rese disponibile alla modernità, ed anzi chiave essenziale per tante sue strade a venire: aprendo al surrealismo stesso la porta di Kandinsky e dell´astratto; e consegnando infine a Gorky, e attraverso di lui alla nuova arte americana, i tesori meno effimeri del surrealismo.
Saggia e dissoluta, gioiosa sempre, ma mai facilmente consolatoria, è stata la sua pittura; tutto questo assieme, ed altro ancora: nascondendo nelle pieghe della metamorfosi interminata delle sue forme lo slancio lirico e l´abbandono giocoso, la malinconia e l´allucinazione (quest´ultima a un passo soltanto dal farsi minacciosa in prossimità della guerra civile spagnola, attorno al cui tempo la mostra di oggi fa soste importanti). Metamorfosi di forme naturali che il sogno ha potuto trasformare, ma mai eclissare del tutto; metamorfosi suscitata più da corse avventurate della fantasia in regioni iperuranie che dallo scendere, come accadde a Klee, nella oscura «regione dei morti e dei mai nati»; metamorfosi sulla quale l´immensa cultura visiva di Mirò esercitò sempre una sorta di silenzioso, non esibito ma fermo controllo. Grazie a essa, Miró giunse a toccare, e a stringere in mano per tutti gli anni della lunga operosità, quella sua difficile ambizione giovanile, di sopire la «plasticità» della pittura e di avviarla «nella direzione della poesia e del sogno».
Fabrizio D’Amico