Corriere della Sera 18 febbraio 2008, Sergio Romano, 18 febbraio 2008
Giustizia specchio dei tempi. Corriere della Sera 18 febbraio 2008. Mi vedo costretto a scriverle nuovamente in quanto rispondendo al lettore Radice, lei ha fatto un’affermazione molto grave, proprio perché proviene da un giornale e da una persona che godono, a ragione, di notevole autorevolezza; lei ha sostenuto che «in molti Paesi occidentali si è radicata la convinzione, spesso avallata dalle leggi, che certi reati non siano soggetti a prescrizione e possano essere perseguiti ovunque» e questa sarebbe «una giustizia molto diversa da quella di cui abbiamo quotidianamente bisogno»
Giustizia specchio dei tempi. Corriere della Sera 18 febbraio 2008. Mi vedo costretto a scriverle nuovamente in quanto rispondendo al lettore Radice, lei ha fatto un’affermazione molto grave, proprio perché proviene da un giornale e da una persona che godono, a ragione, di notevole autorevolezza; lei ha sostenuto che «in molti Paesi occidentali si è radicata la convinzione, spesso avallata dalle leggi, che certi reati non siano soggetti a prescrizione e possano essere perseguiti ovunque» e questa sarebbe «una giustizia molto diversa da quella di cui abbiamo quotidianamente bisogno». Al riguardo vorrei che a tutti fosse chiaro che i codici (e non la convinzione dei magistrati) prevedono che certi reati molto gravi (ad esempio omicidio aggravato o strage) non siano soggetti a prescrizione, che certi reati debbano (non che possano) essere perseguiti anche se commessi all’estero e che il pm deve (non che può) promuovere l’azione penale se ha acquisito elementi di prova idonei a sostenere l’accusa in giudizio; ovviamente queste disposizioni di legge, se ritenute sbagliate, possono essere modificate ma certamente non dai magistrati. Con riguardo all’utilità di perseguire reati commessi trent’anni prima infine, le segnalo che nel 2006 ho promosso l’azione penale nei confronti di una persona, attualmente seriamente ammalata, che nel 1979, nel corso di una rapina, aveva ucciso un artigiano orafo di 26 anni alla presenza della moglie e della figlioletta di 3 mesi; il processo si è concluso con la condanna dell’omicida all’ergastolo in primo grado, pena ridotta, in seguito a patteggiamento, in grado d’appello a quattordici anni di reclusione e con la condanna a pagare alle persone offese, a titolo di risarcimento del danno, la somma provvisoria di 300.000 euro. Mi piacerebbe sapere se lei ritiene che in tal caso l’attività del mio ufficio e delle Cortid’Assise di Milano sia stata l’esercizio di «una giustizia molto diversa da quella di cui abbiamo quotidianamente bisogno». Massimo Meroni Caro Meroni, Lei sostiene che i magistrati applicano i codici e non agiscono sulla base di convinzioni diffuse nella pubblica opinione. vero. Ma i codici non sono fatti di norme scolpite nel marmo o fuse nel bronzo. Sono il risultato di tendenze culturali, opinioni filosofiche, teorie giuridiche, cambiamenti di regimi politici e di mentalità collettive. La legge che lei applica non è scesa fra gli uomini dall’empireo della Giustizia. Riflette la cultura del momento, l’influenza dominante di un partito culturale o il concetto del bene comune prevalente nelle classi dirigenti. Una delle prime leggi approvate dai Borbone in Francia, all’epoca della Restaurazione, fu quella che prevedeva la pena di morte per il reato di sacrilegio. Nulla di sorprendente. Dopo la furia giacobina e il periodo napoleonico, il trono e l’altare stringevano un nuovo patto contro i temuti rivoluzionari di domani. Il sacrilegio era anch’esso, come ogni attentato all’autorità e alla persona del sovrano, una forma di «lesa maestà ». Perché non trattare i due reati con lo stesso rigore? Il mondo è cambiato e altri reati sono diventati, agli occhi delle nostre società, esecrabili. I crimini contro l’umanità, la violenza politica, la criminalità organizzata, la corruzione, il terrorismo sono diventati i mali del nostro tempo, i pericoli che potrebbero minacciare il nostro futuro. Si è diffusa nello stesso tempo la convinzione che i magistrati, meglio dei governi, potessero dare una risposta a questi sentimenti, e che le loro funzioni potessero estendersi, senza limiti di tempo, anche al di fuori del territorio nazionale. Quasi tutti questi reati hanno, direttamente o indirettamente, una rilevanza politica e possono essere giudicati diversamente a seconda delle convinzioni o della lettura storica del periodo in cui furono commessi. Certe forme di giustizia tardiva possono dare soddisfazione ai superstiti o ai loro eredi, ma possono anche riaprire vecchie ferite e creare nuove tensioni. Tuttavia la «domanda di giustizia» e l’importanza mediatica di certi procedimenti giudiziari hanno convinto molti magistrati, non soltanto in Italia, a riaprire vecchi casi che risalgono a 40, 50 o 60 anni fa. Lei ha fatto bene, caro Meroni, a perseguire l’autore di un delitto commesso nel 1979. Ma non credo che il processo Priebke, quando verrà studiato dagli storici, sarà considerato una impeccabile pagina di storia giudiziaria italiana. E non credo sia utile riaprire processi quando tre quarti dei testimoni, nella migliore delle ipotesi sono morti. Non è tutto. Un magistrato impegnato per dieci anni in un vecchio caso è inevitabilmente sottratto ad altri impegni, più umili e attuali. So che i magistrati del penale e quelli del civile sono categorie distinte. Ma coloro che difendono l’unicità della carriera dovrebbero forse spiegare ai loro connazionali perché la prossima udienza di certe cause civili sia stata fissata, in questi mesi, al 2020. Sergio Romano