Corriere della Sera 17 febbraio 2008, Franca Porciani, 17 febbraio 2008
Nella mente del killer. Corriere della Sera 17 febbraio 2008. Esiste l’istinto omicida? Le neuroscienze indagano Nuovi studi cercano di individuare le basi biologiche dell’estrema aggressività
Nella mente del killer. Corriere della Sera 17 febbraio 2008. Esiste l’istinto omicida? Le neuroscienze indagano Nuovi studi cercano di individuare le basi biologiche dell’estrema aggressività. Scrutando i segreti del cervello Olindo Romano e Rosa Bazzi se ne stanno tranquilli mano nella mano nel gabbiotto del tribunale mentre si consuma un evento che, vista l’affluenza, sta diventando un circo mediatico dell’orrore. Il processo, in corso a Como, è quello per la strage di Erba, uno dei delitti più efferati degli ultimi anni: quattro omicidi (fra le vittime, un bambino di appena due anni) perpetrati nel giro di pochi minuti l’11 dicembre 2006. l’ultimo caso che ripropone un interrogativo complesso: esiste l’istinto di uccidere? una predisposizione biologica, sia questa scritta nei geni o frutto del nostro processo evolutivo? comunque ineliminabile dalla faccia della terra per fattori sociali, disuguaglianze economiche, rapporti di potere? Dell’argomento si sono occupati psichiatri criminologi, storici, filosofi, antropologi, psicologici evoluzionisti, ma da qualche anno in questo campo «minato» hanno cominciato a muoversi anche neuroscienziati e genetisti. Alle loro ipotesi ha dedicato di recente un articolo la rivista inglese Nature. Quello che interessa agli scienziati è dimostrare (o sfatare) l’idea di una base «neurobiologica» del comportamento omicida. Nel 1997 fece scalpore uno studio pubblicato da Adrian Raine e Lori LaCasse, all’epoca all’università della Southern California, insieme ai colleghi della Mount Sinai school of medicine di New York. Analizzando con la Pet (tecnica che individua quali aree cerebrali sono in attività, registrando il consumo di glucosio, il carburante dei neuroni) il cervello di 41 assassini americani, capaci di intendere e di volere, i ricercatori trovarono due caratteristiche un po’ strane: una maggiore eccitabilità del sistema limbico e una ridotta attività delle aree della corteccia prefrontale, soprattutto di quella orbitofrontale. Che cosa significa? Il sistema limbico, un insieme di strutture nervose antico quanto la storia dell’uomo, è strettamente legato ai meccanismi della sopravvivenza e governa le pulsioni emotive, la paura, la rabbia, il disgusto. La corteccia prefrontale è, al contrario, una «parte» nobile del cervello, sede dei processi integrativi e quindi della capacità di elaborare le conoscenze e guidare le azioni: la orbitofrontale, in particolare, sembra associata al controllo delle emozioni, soprattutto delle pulsioni aggressive. Rilievo che conferma osservazioni precedenti che registravano comportamenti aggressivi sia nella scimmia, sia nell’uomo, in seguito a lesioni di quest’area della corteccia. Abbiamo scoperto dove si «annida » l’istinto omicida? «Nessuna conclusione affrettata, per carità – risponde Pietro Pietrini, dell’Università di Pisa, responsabile scientifico dell’organizzazione mondiale per l’Human Brain Mapping ”. Devo ricordare però un esperimento che ha realizzato il mio gruppo insieme ai colleghi di Bethesda, pubblicato nel 2000. Abbiamo sottoposto 15 soggetti sani ad una simulazione visiva capace di stimolare la loro aggressività – la madre veniva assalita da sconosciuti dentro un ascensore – e abbiamo registrato che cosa succedeva nel loro cervello con la Pet. Ebbene, si vedeva un calo nell’attività della corteccia prefrontale, come se per mettere in atto una riposta aggressiva fosse necessario "spegnere" l’area cerebrale deputata al controllo razionale. Il famoso conflitto fra emozioni e raziocinio sembra esistere anche in termini neurobiologici». Assolutamente contrario a questa ipotesi Samuel Bowles, economista, docente all’Università di Siena e direttore del programma in scienze comportamentali presso il Santa Fe institute nel New Mexico. Di lui l’articolo di Nature ricorda le ricerche che hanno dimostrato come nel processo evolutivo l’altruismo sia co-evoluto in tandem con un atteggiamento di ostilità, una sorta di Rambo e Madre Teresa, necessari l’uno all’altro. «Se l’idea del "cervello violento" fosse vera – dice Bowles ”, sarebbe impossibile spiegare perché il tasso di omicidi in Finlandia è tre volte quello della Norvegia e quello di Detroit venti volte quello di Toronto. L’omicidio, come la guerra, fa parte del repertorio umano, però le cause sono soltanto sociali ». Un altro tassello ad una sorta di predisposizione alle pulsioni omicide, viene, però, dagli studi della genetica comportamentale, una branca nuova (e discussa) che cerca di individuare i geni che possono favorire certi tratti della personalità, come l’abuso di droghe, il comportamento aggressivo o antisociale. Ce ne parla Silvia Pellegrini, del laboratorio di biologia mo-lecolare dell’università di Pisa: «Le ricerche degli ultimi anni hanno messo in risalto come possedere una certa variante (che ne aumenta o ne riduce la potenza, ndr) di un gene che regola il metabolismo di mediatori cerebrali coinvolti nel controllo degli impulsi e nei meccanismi di gratificazione e di punizione, si associa ad un rischio maggiore di comportamenti anomali. D’altro canto il cervello è sotto controllo genetico, anche se viene plasmato dall’ambiente e dall’esperienza». Si possono ipotizzare «attenuanti genetiche» per un omicida? «Le attuali conoscenze sulla genetica comportamentale – risponde la ricercatrice – non pongono al momento cambiamenti alla nozione di responsabilità applicata al contesto legale. Comprendere meglio le implicazioni dei meccanismi genetici potrebbe modificare il concetto di colpa e, di conseguenza, quello della pena da infliggere. Non a caso di recente in un processo è stata invocata dalla difesa la vulnerabilità genetica (accertata) di una donna accusata di aver ucciso il proprio bambino. Se un ambiente sfavorevole, l’essere cresciuti con genitori violenti, ad esempio, costituisce oggi un attenuante, perché non dovrebbe avere valore un assetto genetico che rende più inclini a comportamenti antisociali?». La risposta non c’è; verrà forse dalla ricerca. Ma Sam Bowles sposta i termini del problema: «La generosità che procede insieme all’ostilità è probabilmente la nostra eredità evolutiva, ma non deve essere il nostro destino. Siamo una specie "culturale", capace di mutamento. In questo senso la dichiarazione di Siviglia (stilata da un gruppo di scienziati nel 1986 e adottata dall’Unesco, ndr), "La biologia non condanna l’umanità alla guerra", e dico io all’aggressività, è profondamente vera». Una nuova attenuante Avere geni «sfavorevoli» che predispongono a comportamenti devianti può mitigare la pena? Franca Porciani