Libero 14 febbraio 2008, Barbara Romano, 14 febbraio 2008
Nel PdL non c’è democrazia. Libero 14 febbraio 2008. lui che ha inventato il Popolo delle Libertà
Nel PdL non c’è democrazia. Libero 14 febbraio 2008. lui che ha inventato il Popolo delle Libertà. Il copyright del partito dei moderati è di Ferdinando Adornato. Ma lui che fa? Un attimo prima della fusione tra Forza Italia e An, molla Berlusconi e va con Casini, l’unico che di confluire nel PdL proprio non ne vuol sapere. Infatti, correrà da solo il 13 aprile, con il simbolo dello Scudocrociato, su cui si è consumata la frattura finale con la Cdl. Ad anticipare l’annuncio che il leader dell’Udc darà oggi alla direzione nazionale del partito è proprio Adornato. Del resto, fare la Cassandra della politica italiana è un po’ la croce della sua vita. Profetizzò pure la nascita del Partito democratico 16 anni fa. Ma nessuno gli credette... Scusi. Ma lei che è il padre ideologico del PdL, che ci sta a fare nell’Udc? «Non è il solo cruccio per me. Perché io in qualche modo ho teorizzato anche il Pd. Quindi sulla base di questo criterio dovrei rammaricarmi pure di non essere là. La sua domanda, però, è sacrosanta. Me la sono fatta anche da solo». E cosa si è risposto? «Che il PdL non è il mio progetto. Esso partiva dall’idea di una confluenza di identità che si arricchiscono reciprocamente, non di un azzeramento». Suona un po’ come il discorso della volpe all’uva... «No, guardi, il facimm’ ammuina , la sarabanda glorificante non mi appartengono come carattere. Io sono una formica, non una cicala. E se ho scelto di defilarmi un po’ è perché volevo marcare di più l’adesione a un’ispirazione cristiano-liberale» Confessi: si è pentito di aver lasciato Forza Italia? «No, perché Fi non garantiva i valori cattolico-liberali. Questa garanzia oggi la dà meglio l’Udc. Dove io mi sento a casa mia, più protetto dai valori cristiani. E poi è il mio destino, che non mi piace, ma è così. Non è colpa mia se ho ragione in anticipo». Adornato, il medium della politica. «Finora è andata sempre così, poi mi posso sbagliare. Non mi considero un medium, ma piuttosto il tavolino su cui i medium possano esercitarsi. E poi non mi prenda in giro, perché io la vivo con sofferenza questa condizione». Sofferenza. Addirittura... «Perché forse ho ragione con troppo anticipo. Ho scritto un libro, "Oltre la sinistra", uscito nel ’91, in cui era chiaramente indicata la prospettiva del Partito democratico. Il mio amico Antonio Polito scrisse "Oltre il socialismo" 10 anni dopo. E andai anche molto vicino a costituirlo il Pd, quando fondai Alleanza democratica con 16 anni di anticipo». Dica la verità, non è stato tentato di aderire al Pd? «No. Tra me e loro c’è una diversità non solo politica ma filosofica». Allora perché ha detto: «Bravo Walter, hai realizzato il mio sogno? «Perché è stato bravo, chapeau ! Ma nemmeno il Pd è il partito unico che immaginavo». E quando pronosticò la nascita del PdL? «Cinque anni fa. Era il 2003 quando scrissi "La nuova strada", il libro in cui lanciai l’idea di un partito popolare europeo in Italia. L’anno dopo Berlusconi fece sua questa idea. Poi cominciò un percorso costituente. Ma si interruppe e si persero le elezioni, che secondo me avremmo vinto se si fosse fatto allora il partito unitario». E ora, nel momento in cui Berlusconi decide di passare dai libri ai fatti, lei si chiama fuori. Non ha la sensazione di aver perso il treno della vita? «Io non faccio politica per occupare posti di potere. A me l’idea che un partito fatto di carne, sangue, idee, passione venga sciolto nel giro di un secondo fa venire l’orticaria. Questo non è ciò per cui mi sono sempre battuto. Vedremo se lo diventerà». Faccia un pronostico sul PdL. «Glielo dico qual è la mia scommessa in anticipo. Il grande partito dei moderati si farà, ma l’area centrale sarà quella cristiano liberale. Quindi quella in cui io sono oggi». L’Udc? Ma se a Casini stava stretta pure la Cdl... «Secondo me, la spina dorsale del grande partito dei moderati sarà la moderazione, la politica temperata, come diceva don Sturzo, e il centro come luogo di costruzione di una classe dirigente affidabile. E poi l’Udc ha una vocazione unitaria. Ha sempre indicato nel Ppe il suo profilo». Sì, ma poi in Italia ha sempre remato contro il partito unico. «Quando nascerà la costituente di un partito unitario con un’organizzazione non feudale, quale è oggi Fi, io ci starò». Che cos’è oggi il PdL? «L’appello di un leader, coadiuvato da un secondo leader, a fare una lista comune». Un cartello elettorale? «Di sicuro somiglia più a un cartello che a un partito. Certo, è un passo avanti. Ma per la nascita di un partito bisogna coinvolgere persone, fare congressi, come hanno fatto Ds e Margherita. Non con i gazebo. Ci vuole democrazia. Lo ripeto: le identità devono confluire in un progetto comune, non essere azzerate». Sta dicendo che sono più democratici Ds e Dl di Fi? «In questo passaggio hanno dimostrato di esserlo». Ma lei avrebbe voluto che Casini aderisse al PdL? «No, tradirei me stesso. Io penso che si debba aderire a un grande partito dei moderati quando il processo di costruzione fosse trasparente. Qui non c’è nessun processo unitario. Poi non capisco perché Berlusconi voglia concedere un patto federativo alla Lega a non all’Udc». Magari perché di Bossi si fida e di Casini no. « un po’ offensivo non fidarsi dell’Udc, perché non ha mai messo in discussione la tenuta della coalizione». Follini nella scorsa legislatura per poco non ha fatto cadere il governo. «Infatti lui è passato di là». Cosa succederà alla direzione nazionale? «Il simbolo dell’Udc sarà nella scheda elettorale». Vuol dire che andrete da soli? «Penso proprio di sì». Fini dice che i valori di destra non vengono meno se scompare la fiamma. Non vale lo stesso per i valori cristiani rispetto allo Scudocrociato? «Certamente sì, ma qui siamo di fronte a un accorpamento elettorale deciso in un pomeriggio. Che serietà c’è in questa roba? Il processo è stato frettoloso anche per An». Crede che Fini ne pagherà le conseguenze? «Non credo, perché comunque i voti di An non si conteranno. Ma non so prevedere quanti ne prenderà Storace». Non crede che anche Casini pagherà al Senato la sua scelta solitaria? «Se si apre uno spazio per i moderati italiani, secondo me può essere anche quantificato su due cifre». Lei disse: «Se Berlusconi scioglie Fi noi ce ne andiamo». Però, tranne Angelo Sanza, non l’ha seguita nessuno. «Non ho mai minimamente pensato di fare proselitismo. Con Angelo, che è coordinatore nazionale dei Circoli Liberal, lo abbiamo deciso insieme, non è che mi ha seguito. Me ne sarei andato anche da solo». Lei nasce nel Pci. Com’è che voi comunisti a un certo punto vi innamorate di Berlusconi? «Mi sono accorto delle menzogne che mi avevano raccontato da ragazzo e nel ’79 ho lasciato la politica. Ma poi c’ho messo dieci anni a elaborare il lutto facendo il giornalista, a Panorama e poi all’Espresso». Prima è stato all’Unità. «Sì, perché ero un dirigente giovanile del Pci, ma ho lavorato all’Unità per non più di tre anni, fino al 1983. Ma è preistoria. Quando leggo sui giornali "ex comunista" è come se mi dicessero "ex adolescente"». Rinnega il suo periodo rouge ? «No, che rinnego! Anzi, ho imparato moltissimo da quella fase. Devo molto della mia formazione metodologica al Pci, anche una certa umiltà nell’af frontare le cose». Si contende il primato di voltagabbana con Mastella. «Per carità! Non ho mai fatto cadere governi, né cambiato schieramenti per fini di potere. Se voltagabbana sono stato, lo sono stato nei confronti dei miei genitori che credevano in Dio. Io, da comunista, ho tradito la religione della mia terra e una civiltà che ha dato i doni più grandi ai popoli dell’Oc cidente». Prima era rosso, poi azzurro, ora bianco... «Io non ho tradito la sinistra, come dicono i compagnucci. la sinistra che ha tradito me, perché da ragazzo mi avevano raccontato che la libertà stava lì. Quando poi ho avuto un’età della ragione meno accecata dagli appelli al popolo ho capito che non era vero. Io ho tradito un tradimento: ho vissuto una catarsi». E cosa scatenò questa catarsi? «Non l’ho mai detto, perché mi sembrava di bana-lizzare cose sacre. Ma il mio cambiamento è stato religioso, non politico». Una conversione? «Un termine troppo impegnativo per me. Ma è stata una scelta religiosa che mi ha portato al mio approdo cristiano-liberale». Lei crede in Dio? «Non ce la faccio a dire "credo in Dio". Non vado a messa. Certo è che uno dei giorni più commoventi della mia vita è stato quando Papa Wojtyla mi ricevette con mia moglie in Vaticano, dove firmò una copia del numero di Liberal a lui dedicato. Gli era piaciuta al punto di dire a Navarro Valls che il mio saggio su di lui era uno di quelli che più si avvicinavano alla corretta interpretazione del suo pensiero. E mi fece invitare a Lublino a tenere una relazione su di lui». Un po’ singolare che sia un non credente a farsi portabandiera dei valori cristiani. «Non sono un non credente». Un ateo devoto? «Per nulla. L’ateo è un credulone, crede a tutto». Abbiamo esaurito le categorie. Si può sapere in cosa crede? «Io credo in Gesù Cristo. Non so se fosse il figlio di Dio. Nel mio cuore mi viene di pensare di sì. Anche se la ragione dubita. Quello di cui sono certissimo è che tutti gli insegnamenti che Cristo ci ha lasciato sono quelli a cui io cerco di corrispondere. E credo che la politica debba tenerne conto». Farà inferocire la Bonino & C. «Amen. Sono profondamente convinto che gli insegnamenti di Gesù Cristo possano diventare dei punti di riferimento per me, anche come politico e come parlamentare. Se la Bonino ne ha tanta paura, vuol dire che crede che in Dio». Dopo anni di convivenza si è sposato. il côté sen timentale della sua conversione? «Penso proprio di sì. Non sono mai stato un pasdaran della distruzione della famiglia. Ma prima non reputavo il matrimonio una cosa importante, e men che meno sacra». Poi? «Mi sono sposato tre quattro volte, sempre con la stessa moglie». Troppa grazia! «Ci siamo prima sposati a Las Vegas perché Maresa era separata. Poi con rito polinesiano. E poi con tutti i crismi in Italia». That’s amore. «Forse, essendo io un tipo irrequieto, ho pensato di rinnovare la promessa in tanti riti». Nel frattempo è tramontato l’amore per Berlusconi. «Io ho molto affetto e stima per Berlusconi. Sono l’unico in Fi che ha teorizzato il berlusconismo come corpo dottrinale». Ma era «stanco di essere suo vassallo». Parole sue. «Non penso sia un padrone, ma uno straordinario tipo italiano. Credo che l’Italia gli debba moltissimo. Credo che abbia realizzato un capolavoro politico. Credo che sia un genio assoluto». E allora perché l’ha mollato? «Per il rischio che lui dissipi il suo capolavoro». In che modo? «Non dandogli continuità. Del Popolo delle Libertà rischia di non rimanere più niente quando Berlusconi deciderà di ritirarsi alle Bahamas». Non sarà che se n’è andato perché Berlusconi non le ha mai dato una poltrona di peso? «Lo chieda a lui». Intanto lo chiedo a lei. «Legislatura 2001: mi hanno dovuto spingere in tre per andare da Silvio a dirgli che sarei stato disponibile a fare il presidente di commissione. Quando ci fu il Berlusconi bis, per cortesia, lui mi chiese se volevo fare il ministro dei Beni culturali. Gli risposi: "Lascia stare, semmai alla prossima". Gli ho chiesto di avere un ruolo nel partito». E lui le ha risposto picche. «Ma non ne ho fatto un dramma. Anche perché l’avevo chiesto più per Liberal che per me. E perché in un partito feudale se non hai un ruolo è complicato». Cosa le ha detto l’ultima volta per convincerla a non andarsene? «Che quello era il mio progetto ed era assurdo che non ci fossi». Torniamo a lei giovane dirigente della Fgci. Com’eravate lei, D’Alema, Veltroni, Fassino? «Tali e quali. Io avevo la stessa irrequietezza di oggi e la stessa smania di fondare giornali. Fassino era altissimo anche da piccolo». D’Alema aveva i baffi pure da piccolo? «Sì». E Veltroni era già malato di "ma-anchismo"? «Aveva la stessa capacità di sposare cinema e politica spesso confondendoli». Lei come ha vissuto il ’68? «Ero in quarta ginnasio, al Visconti, e lì fui inguaiato perché mi toccò partecipare alle assemblee dei collettivi». Non gliel’aveva mica ordinato il medico. «No, ma successe che il preside del Visconti, nel contestare quei ragazzi che facevano casino, bestemmiò. Se l’autorità bestemmia, la ragione sta dall’altra parte, pensai». E impugnò la falce e martello. «Andai alla sezione del Pci più vicina e mi iscrissi. Fiero di ciò - per me era come far l’amore per la prima volta - andai dal nostro leader a scuola e gli dissi: "Mi sono iscritto al Pci"». E lui? «"Ma che cazzo hai fatto! Noi stiamo andando al Manifesto!" E scoprii che nel Pci di tutto il Visconti eravamo in tre. Però rimasi lì come un soldatino». Quand’è che si ammutinò? «Nel ’72, a un’assemblea d’istituto di 600 persone, quando arrivò la notizia della morte di Calabresi tutti applaudirono. Non lo dimenticherò mai. Ho capito lì cosa vuol dire la violenza della massa. Io non mossi un dito. Ma mi vergognavo a farmi vedere che non applaudivo». E che fece? «Mi chinai facendo finta di allacciarmi una scarpa». Come c’è rimasto quando Fini ha riabilitato il ’68 al suo convegno la settimana scorsa? «Immaginavo tutt’altro intervento da Gianfranco. Mi sono chiesto perché lo avesse fatto. Ci sono rimasto male, perché credo che noi abbiamo il dovere di indicare, soprattutto agli insegnanti, i guasti del ’68». vero che in quegli anni lei fece un provino col Milan? «No, ma il Milan mi voleva. Giocavo in una squadra regionale, la Boreale. Ero mezz’ala». Una vita da mediano. «Mi piace giocare a centrocampo. Preferisco far fare goal agli altri. Non andare al Milan è stato un cruccio per me». Oltre al Milan e al PdL, quali altri crucci ha? «Il più grande è che mio papà non abbia potuto assistere alla mia metamorfosi. Lui tremava quando andavo alle assemblee dei collettivi. Quasi impazzì quando mi iscrissi al Pci. Il libro "Oltre la sinistra" lo dedicai "a mio padre, perché aveva ragione"». Perché? Di che idee era suo padre? «Era della Dc. Forse sto tornando al padre...». Barbara Romano