La Stampa 16 febbraio 2008, Andrea Armaro, 16 febbraio 2008
RIVOLUZIONE CULTURALE IN SICILIA
La Stampa 16 febbraio 2008.
A sei mesi dalla firma dei Patti per la Sicurezza, i delitti sono in calo nelle grandi città italiane come nei piccoli centri. Sul fronte della lotta alle mafie, la recente cattura di Salvatore Lo Piccolo, ultimo boss di Cosa Nostra, è stata un altro significativo passo avanti per liberare la Sicilia, e non solo, da una presenza asfissiante. Si è aperta una nuova stagione, per quelle aree del Paese dove impera la criminalità organizzata. A Catania, secondo il ministero dell’Interno si è registrata una diminuzione dei reati legati al racket mafioso che fa sperare in un’inversione di tendenza. Le denunce per estorsione sono scese dalle 155 dei primi sei mesi 2007 alle 102 del secondo semestre; i casi di danneggiamento e incendio doloso sono passati, per gli stessi periodi di riferimento, da 2662 a 2545. Questi dati non sono il frutto soltanto dell’impegno tenace dello Stato, ma anche di una consapevolezza che in Sicilia si va diffondendo: che scendere a patti con i sistemi mafiosi, pagare il pizzo, non è un danno soltanto per le aziende e per la crescita economica del territorio, ma anche per la tenuta democratica della società e per il futuro delle nuove generazioni.
In Sicilia è in corso una vera rivoluzione culturale. Non ha preso avvio dalla politica, ma è nata per le strade, grazie all’impegno civile dei cittadini siciliani. Penso a «Libera» di don Ciotti, ai ragazzi di «Addio Pizzo», alle associazioni antiracket di Tano Grasso e a quel mondo dell’associazionismo che ha supplito a una politica e amministrazione della cosa pubblica troppo distante dalle reali esigenze della Sicilia e, più d’ogni altra cosa, sorda al bisogno di rinnovamento e trasparenza che questa regione sta oggi esprimendo con chiarezza. In questo clima di speranza che i cortei contro la criminalità organizzata e le manifestazioni dei giovani siciliani hanno saputo creare, la decisione di Confindustria Sicilia di espellere gli imprenditori che pagano il pizzo ha generato quel salto di qualità per anni negato all’affermazione che un’altra Sicilia è possibile. Questa iniziativa - guidata da giovani imprenditori siciliani che, partendo dalla Sicilia, hanno imparato a confrontarsi e a misurarsi con il mondo - ha il grande merito di aver consentito di far uscire dai vecchi «confini» la consapevolezza del limite che una presenza così soffocante come la mafia rappresenta.
Il racket delle estorsioni è un male che frena lo sviluppo e innesta nel tessuto economico dinamiche di concorrenza sleale che danneggiano tanto chi paga il pizzo quanto chi sceglie di non pagarlo; un male che crea dinamiche di controllo dell’economia e del territorio, mettendo a repentaglio la sicurezza collettiva. La crescita d’imprese e attività commerciali è strettamente intrecciata al destino del territorio in cui si opera e in una terra dove gli imprenditori e le loro famiglie non si sentono sicuri, non investono, non si creano nuovi posti di lavoro e nuova ricchezza. Lì diventa più semplice cedere al bisogno e scendere a patti con i sistemi mafiosi. I siciliani hanno dimostrato di comprenderlo bene e di voler cambiare, voltare pagina. ora che anche la politica recepisca queste istanze di rinnovamento. Il momento è propizio. Oggi i partiti siciliani (ma anche i sindacati, gli ordini professionali) di entrambi gli schieramenti, non possono restare sordi al messaggio che la società civile e le associazioni hanno lanciato. Devono farsi carico di quella domanda di rinnovamento, con senso di responsabilità e a partire dalla scelta delle candidature, tanto al Parlamento che all’Assemblea Regionale e alla presidenza della Regione Sicilia. Come diceva Paolo Borsellino, «i partiti, i consigli comunali e regionali dovrebbero trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze fra politici e mafiosi che di per se non costituiscono reato, ma che rendono il politico comunque inaffidabile. Quando c’è questo grosso sospetto si dovrebbe quantomeno indurre i partiti politici, non soltanto per essere onesti ma anche per apparire onesti a fare pulizia al loro interno». E, come diceva un altro grande siciliano, il giovane giudice Rosario Livatino: «Essere credenti è un fatto che riguarda la sfera privata, essere credibile invece riguarda la sfera pubblica». Spetta alla politica e ai politici, quindi, essere credibili.
Andrea Armaro