La Stampa 14 febbraio 2008, Domenico Quirico, 14 febbraio 2008
Televisione spenta contro Sarkò. La Stampa 14 febbraio 2008. In strada, l’avenue Montaigne, con cartelli, coretti, bandiere per difendere la pubblicità, sì la pubblicità, invocata come un sacrosanto strumento di difesa del pluralismo, dalle mani lunghe di politici spregiudicati e dei loro amici ghiotti di ottimi affari
Televisione spenta contro Sarkò. La Stampa 14 febbraio 2008. In strada, l’avenue Montaigne, con cartelli, coretti, bandiere per difendere la pubblicità, sì la pubblicità, invocata come un sacrosanto strumento di difesa del pluralismo, dalle mani lunghe di politici spregiudicati e dei loro amici ghiotti di ottimi affari. A sfilare determinatissimi e uniti come non avveniva dalla preistoria dei primi Anni Settanta, quando la televisione in Francia era statalista, unica e siglata Ortf, i giornalisti e i dipendenti delle reti pubbliche. Paradossi, contraddizioni di un sarkozismo sempre più avviluppato nelle sue fragilità e incapace di tradurre i proclami audacemente riformatori in realtà. E’ il Sarkozy che ha dimenticato la febbrile promessa di far tutto e subito e che ora dà appuntamento ai francesi alla fine del mandato, tra cinque anni. L’idea che ha scatenato il putiferio poteva sembrare seducente ma, onestamente, ora non pare attendibile. E’ passato solo un mese da quando il presidente nella prima conferenza stampa all’Eliseo decretò la fine della pubblicità su France televisions; che vuol dire quattro reti televisive, un paio di radio e metà della Cnn chirachiana, ovvero France 24, in tutto undicimila dipendenti. Perché, fulminò il presidente, la televisione pubblica «non può funzionare secondo criteri puramente mercantili». Frase scultorea ma che lasciava aperto un abisso di interrogativi: soprattutto come sostituire i soldi del deprezzato ma indispensabile apporto degli spot. Il presidente fece un cenno infastidito e sommario a una tassa imposta alle Private e a piccoli balzelli da prelevare su Internet e telefonini. Nulla di più. I dipendenti di France televisions cominciarono a sentire odor di bruciato quando, il giorno dopo, in Borsa le azione di TF1, il principale rivale della telé pubblica realizzarono una brusca impennata. Milioni di euro finiti senza fatica nelle tasche di Martin Bouygues, miliardario il cui cuore batte da sempre per Sarkozy. Da allora il progetto è stato ribadito ma le precisazioni pratiche non sono arrivate. I sindacati sono stati convocati alll’Eliseo per scongiurare lo sciopero che ieri ha azzoppato programmi e notiziari; un segretario generale, François Perrol, ha ribadito che la compensazione dei soldi perduti sarà fatta fino all’ultimo centesimo, ma a domande precise ha risposto: «Sono gli stessi quesiti che ci poniamo anche noi». Nessuna traccia del miliardo e 200 milioni di euro necessari per assicurare i programmi. Insomma l’audace annuncio presidenziale sarebbe null’altro che una scatola vuota, lanciata per animare lo scenario di attivismo frenetico. O peggio: un marchingegno per l’eutanasia del servizio pubblico. Nel frattempo i danni sono fatti: gli inserzionisti hanno cominciato a far marcia indietro e alcuni programmi sono già bloccati per mancanza di copertura. A rischio le nuove serie americane che qui furoreggiano e il calcio (prudentemente la tv pubblica ha rinunciato a partecipare all’asta dei diritti tv). Alle private, TF1 e M6, fanno già i conti con le nuove entrate: a un primo calcolo TF1 che oggi con il 30% della audience ha il 50% di pubblicità, dovrebbe salire fino al 70%. Azionisti in estasi, dunque. Senza dimenticare che ogni volta che la destra è al potere soffiano voci di smantellamento del servizio pubblico. Sarkozy ha sempre smentito ma ha aggiunto: «Se i programmi cambiano...». Allora tutti in sciopero, con striscioni così: «Sarko se sei un campione trova subito 880 milioni»; «servizio pubblico denaro pubblico»; «senza la pubblicità sì, senza il soldo no». I dipendenti delle televisioni si aggiungono a un plotone di scontenti, di scioperanti che diventa sempre più compatto: controllori di volo, giudici, avvocati, ferrovieri, funzionari sempre più convinti di guadagnare poco e comunque meno delle sfolgoranti promesse di potere di acquisto di Sarkozy. La delusione ha mobilitato perfino quegli antichi eversori che sono i parrucchieri, anche loro inferociti dallo sciagurato rapporto Attali sul rilancio della crescita. Era previsto, inevitabile per un riformatore immerso in una Paese abituato a passare ogni innovazione al crivello dell’esistente. Quel che è nuovo è la fragilità, la timidezza che mostra il presidente, il suo rapido far marcia indietro spaventato perfino da una serrata di tassisti. Ieri i manifestanti che esigono di incontrarlo subito proclamavano: «Forse contiamo meno dei tassisti?». Domenico Quirico