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 2008  febbraio 15 Venerdì calendario

L’uomo che ha fermato il tempo. La Stampa 15 febbraio 2008. L’atleta è un uomo che ha deciso di spostare indietro le mura della propria prigione»

L’uomo che ha fermato il tempo. La Stampa 15 febbraio 2008. L’atleta è un uomo che ha deciso di spostare indietro le mura della propria prigione». Antoine Blondin in Italia non lo conosce nessuno, soltanto chi corre. Perché se corri la frase di questo francese metà romanziere metà cronista te la sei sentita ripetere un milione di volte: quando perdi e ti chiedi chi te l’ha fatto fare, quando stai male per la fatica, quando ti viene voglia di mollare tutto e chissenefrega se le pareti degli altri sono più strette delle tue. Il mondo dei vinti «Io non ho mai visto né mura né prigioni. Io sono sempre stato libero, perché solo chi è libero può correre davvero». Marco Olmo è seduto sulla piazza di Robilante, di fronte le montagne dei partigiani e dei contrabbandieri, alle spalle il cementificio che non farà bene all’ambiente ma da queste parti ha dato da mangiare a tanta gente. Ha gli occhiali a specchio, il berretto con la visiera, il giubbotto di pile e le scarpe da riposo. Veste come un qualsiasi atleta dopo l’allenamento, e in effetti alle dieci di mattina ha già trovato il modo di correre un paio d’ore, però a guardarlo non diresti che è lui l’ultramaratoneta più forte del mondo, quello che ha vinto i due ultimi «Trial du Mont Blanc»: 163 chilometri senza fermarsi su e giù per le cime del massiccio più alto d’Europa. O la Marathon des Sables nel Sahara, o la Desert Cup in Giordania, dove «dicono che ci sono quaranta gradi all’ombra, ma io l’ombra non l’ho vista mai». Non lo diresti perché ha la fronte stempiata, le rughe intorno agli occhi e la barba sale e pepe. Perché il prossimo ottobre Marco Olmo farà sessant’anni. «Io vengo dal mondo dei vinti», dice l’uomo che ha fermato il tempo. E fa specie sentirlo da uno che ha messo in fila i corridori più pazzi di quattro continenti: marocchini, nepalesi, francesi, americani come Dean «Karno» Karnazes, quello delle cinquanta maratone in cinquanta giorni di seguito, quello che ha raccontato le sue imprese in un libro venduto in tutto il mondo, ma sul traguardo del Bianco ci è arrivato stravolto, con sei ore di ritardo. «Aveva pure chiamato i giornalisti, prima. Diceva che mi avrebbe distrutto, con la sua tecnologia e le sua maglietta piena di patacche e di sponsor. C’è rimasto male, quando mi ha visto andar via con lo zainetto fatto in casa, i fuseaux a fiori e la mia corsa da Fantozzi. Alla fine, però, è venuto a stringermi la mano: i podisti non si prendono a testate...». L’acqua nel pozzo I «vinti» del mondo di Olmo non sono Karno e i suoi amici d’America. Sono i vecchi piemontesi di Nuto Revelli, «i contadini che hanno rinunciato alla terra, come ho fatto io a vent’anni. E’ un buco che ti resta dentro. In casa mia non c’era la luce, e l’acqua stava fuori nel pozzo. Fratelli? Nessuno, solo un paio di vacche e qualche capra. Scuola? Elementari e basta. Sport? Non sapevo neanche che roba era. Però se c’era da correre, correvo: ogni volta che c’era bisogno di qualcosa era tutto un ”vai Marco”. E io andavo, su e giù per i pascoli. A pensarci era una bella vita: il mangiare c’era sempre, la gente si aiutava e non aveva bisogno di niente. Mica come adesso, che hai tutto e non ti basta mai». Un bambino veloce sui prati, come i piccoli africani che a forza di correre verso la scuola si ritrovano alle Olimpiadi, ricchi e famosi. «Ricchi e sfruttati. Per ognuno di quei ragazzi c’è un esercito di gente che mangia: l’allenatore, il preparatore, il manager, i falsi amici che spariscono quando comincia ad andar male. La cosa più bella della corsa è che sei da solo, con le tue gambe e la tua testa. Non mi piacciono le gare dove quando arrivi secondo hai perso tu, e quando sei primo hanno vinto tutti. Non mi piacciono i corridori professionisti: io sono uno che lavora per vivere e vive per correre. Non si può correre per lavoro: non è naturale. La fatica ha un senso solo se scegli di farla: chi lavorerebbe in un ufficio con 40 gradi? Nessuno, eppure in vacanza tutti vanno in spiaggia a morire di caldo: la corsa è uguale, rendila obbligatoria e fa schifo. Non mi piacciono neppure quelli che parlano di sfide personali e poi si appoggiano agli altri: gli alpinisti che vanno sull’Everest con la scorta dei portatori. Che senso ha? Io corro per me, ma corro da solo». Poeti Nel ”68, Marco diventa un «vinto»: lascia la campagna per salire su un camion prima e su una gru poi, a spostar massi giù al cementificio. Di correre non se ne parla, fino a una gara di paese per i sentieri di Robilante, su verso i monti. «Sono arrivato sesto su sette, e soltanto perché l’altro aveva sbagliato strada. Avevo 27 anni, a quell’età molti hanno già smesso. Io ho continuato, anche se non era facile: qui la gente è fatta a modo suo. Io correvo per il paese, e loro ridevano». Ora a Robilante non ride più nessuno: passano in piazza e salutano il loro campione, tutti, uno per uno. Al bar dell’angolo, ormai, la cosa più strana non è che uno sia il più forte del mondo a 60 anni, ma che si possa correre tanto senza mangiare carne. «Sono vegetariano per scelta. Se per nutrire una vacca ci vanno 15 chili di cereali al giorno, tanto vale mangiarsi i cereali e lasciar stare la vacca. La forza? Quand’ero piccolo la carne non la mangiava nessuno. Eppure tiravano su sacchi da mezzo quintale come fossero carta». Un giorno, Eugenio Montale disse che amava la corsa «perché era poesia», e che quando sognava «sognava di essere un maratoneta». L’uomo che ha fermato il tempo gli sarebbe piaciuto. «Ricordo un’alba sul Bianco, con il sole riflesso sulla parete. Era bellissimo», sorride Olmo. Poesia? «Forse soltanto sollievo: stavo correndo già da dodici ore, e alla fine ne mancavano appena nove». Guido Tiberga