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 2008  febbraio 14 Giovedì calendario

 morto Greco "papa" della mafia. La Repubblica 14 febbraio 2008. Se n´è andato Michele Greco, l´uomo che trent´anni fa aveva consegnato la mafia siciliana nelle mani di Totò Riina

 morto Greco "papa" della mafia. La Repubblica 14 febbraio 2008. Se n´è andato Michele Greco, l´uomo che trent´anni fa aveva consegnato la mafia siciliana nelle mani di Totò Riina. Aveva 84 anni, e a Rebibbia era sepolto vivo da 22. L´ultima volta che «il papa della mafia» riuscì a sentire i profumi della sua Palermo e a tornare in quella bella tenuta dove erano passati cardinali e ministri, conti, procuratori, principi, generali e assassini fu nel febbraio del ”91. Con lui se ne vanno anni e anni di segreti, di rapporti tra malaffare e politica, di gestione dell´economia siciliana e non solo. La sua masseria era magnifica, in mezzo alla zagara delle ultime gole della Conca d´Oro. Lui stava nella penombra, non era più abituato alla luce. Si copriva gli occhi con le mani e si lamentava: «Gli amici del diavolo per cinque anni non mi hanno fatto mai vedere il sole». In nome della legge - una sentenza della Cassazione - era appena tornato libero per settantadue ore. Fu quella l´ultima volta, era il febbraio del 1991, che «il papa della mafia» riuscì a sentire i profumi della sua Palermo e a tornare in quella bella tenuta dove erano passati cardinali e ministri, conti, procuratori, principi, generali e assassini. Se n´è andato il vecchio Michele Greco, quel signorotto con la faccia da prete di campagna che trent´anni prima aveva consegnato la mafia siciliana nelle mani di Totò Riina, è morto di morte naturale come non capitava ormai da tanto tempo ai capi come lui. Per ventura o per sventura era stato in cima a quella Commissione provinciale che decideva della vita e della morte degli uomini, la Cupola, il governo di Cosa Nostra. Aveva ottantaquattro anni, a Rebibbia era sepolto vivo da ventidue. Gli ultimi ricordi felici che gli erano rimasti lo portavano a quei tre giorni che l´eccellentissimo giudice Corrado Carnevale diciassette anni prima gli aveva regalato, una scarcerazione - per lui e per un´altra quarantina di boss - per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva. Uscirono in massa dall´Ucciardone gli imputati del primo maxi processo, tornarono dentro tutti con decreto governativo. Anche lui, anche lo «zio Michele». Era voluto andare là per l´ultima volta, nella sua masseria sullo spigolo fra la via Croceverde e la via Giardina, la borgata prendeva il nome proprio dalle due strade che scendevano ripide dalla montagna di Gibilrossa. «Sono di qui, sono di Croceverde Giardina e non ho mai avuto niente a che fare con i Greco Ciaculli», raccontava risentito ai giornalisti che lo avevano inseguito fino alla Favarella. E finalmente iniziò a parlare. Non si fermò più. «E qui è venuto a mangiare Sua Eminenza il cardinale Ernesto Ruffini, qui sono passati uomini politici importantissimi, il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo era di casa, aveva anche le chiavi della Favarella...». Per quei paradossi della giustizia italiana, in quel giorno di febbraio del 1991, «il papa della mafia» aveva un ergastolo e nove condanne in quattro Corti di Assise ma risultava ancora incensurato. L´avevano anche accusato di 147 omicidi, per 143 volte era stato assolto. Sulle strade di Palermo già uccidevano poliziotti come Boris Giuliano e procuratori della Repubblica come Gaetano Costa ma Michele Greco aveva ancora il porto d´armi. Con la doppietta in spalla se ne andava a sparare al tiro a segno dell´Addaura, aveva il passaporto, frequentava senatori e onorevoli della Regione. Tutti invitati per la «mangiata» alla Favarella. Un giorno loro e un giorno quegli altri: Totò Riina, Rosario Riccobbono, Salvatore Inzerillo, Bernardo Provenzano, Totò Minore, Giuseppe Di Cristina, Tano Badalamenti, Leoluca Bagarella. Tre generazioni di boss sono sfilate nei giardini di limone di Michele Greco. «E´ un pupo nella mani dei Corleonesi», disse una notte Tommaso Buscetta al giudice Falcone. E quella notte fu l´inizio della fine del «papa della mafia». Cominciò a indagare sui misteri della Favarella un ragazzo che non aveva neanche trent´anni, Calogero Zucchetto, un poliziotto della Squadra mobile che sulla sua Vespa si spingeva fino a Croceverde Giardina per vedere da vicino chi entrava e usciva dai possedimenti del «papa». Lo uccisero. Cominciò a indagare il commissario Beppe Montana che alla Favarella cercava i latitanti. Lo uccisero. Cominciò a indagare anche Ninni Cassarà, il capo dell´»investigativa». Uccisero pure lui. Aveva appena consegnato a Giovanni Falcone un rapporto che aveva come intestazione «Michele Greco + 161». Lì dentro c´era il romanzo nero della Palermo degli Anni Ottanta, la trama della guerra di mafia che aveva appena fatto mille morti nell´isola, la mappa delle «famiglie», i nomi di tutti gli affiliati a Cosa Nostra. Da quel rapporto Giovanni Falcone e gli altri giudici del pool costruirono il maxi processo. Il numero uno di quei 474 imputati era «il papa della mafia». La notte di San Michele - il 29 settembre dell´84 - la notte che la più grande retata antimafia della storia si portò all´Ucciardone centinaia di capi e sottocapi e soldati della Cosa Nostra, i poliziotti non trovarono Michele Greco alla Favarella. Si era già buttato latitante. Aveva trovato riparo ai piedi delle Madonie, in un casolare alle spalle del paese di Caccamo, una cinquantina di chilometri da Palermo. Fu preso un paio di anni dopo dai carabinieri, il «giuda» che lo tradì per 200 miserabili milioni lo fecero fuori al tramonto. Nel casolare di Caccamo don Michele era solo, solo con un mulo. L´aula bunker, quella mastodontica costruzione che sembrava un´astronave attaccata al carcere dell´Ucciardone, lo ricevette con riverente silenzio. Tutti gli imputati lo seguirono con lo sguardo quando uscì dalla gabbia numero 31 e cominciò a rispondere alle domande, prima del presidente Alfonso Giordano e poi del giudice a latere Piero Grasso. Signor Greco, lei è accusato di svariati omicidi... «Signor presidente, la violenza non fa parte della mia dignità». E subito dopo don Michele aggiunse: «Mi volete spiegare in che cosa avrei mafiato?». Le sue battute al maxi processo sono rimaste celebri, la sua «parlata» è diventata per anni uno slang delle borgate palermitane. A Falcone disse: «Giudice, lei è il Maradona del diritto, quando prende la palla non gliela toglie nessuno». All´ultima udienza del maxi processo, i giudici si stavano ritirando in camera di consiglio, Michele Greco prese la parola: «Signor presidente, io vi auguro la pace eterna a tutti voi. La serenità è la base fondamentale per giudicare, non sono parole mie ma sono parole del nostro Signore». Una pausa e poi sibilò qualcosa che sembrò a tutti un avvertimento: «Vi auguro che questa pace vi accompagni per il resto della vostra vita». Fu condannato all´ergastolo. Dopo neanche due anni qualcuno gli diede una nuova speranza. «Il giudice che mi ha assolto ha due palle grosse come il mio mulo di Caccamo», dirà quando una Corte di Assise lo assolse dall´associazione mafiosa. Era il maxi-ter, uno dei tanti tronconi dei processi istruiti da Giovanni Falcone. Furono assolti anche Totò Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò. Una sentenza scandalosa, in quel momento sembrò far crollare tutta l´impalcatura delle inchieste su Cosa Nostra. Michele Greco era già stato condannato al carcere a vita in Corte di Assise a Caltanissetta come mandante dell´omicidio del consigliere Rocco Chinnici e ad un altro ergastolo a Palermo al primo maxi processo, quel verdetto però rischiava di rimescolare tutte le carte, cancellare per sempre il cosiddetto «teorema Buscetta». L´unicità di Cosa Nostra, la Cupola, le «famiglie». In sostanza l´esistenza della mafia. Attilio Bolzoni