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 2008  febbraio 14 Giovedì calendario

SE L’ OCCIDENTE NON CAMBIA STRATEGIA

Corriere della Sera 14 febbraio 2008.
Un tragico promemoria si abbatte sulla vigilia elettorale italiana. Assorbito da questioni più suscettibili di influenzare il responso delle urne, il nostro dibattito interno aveva rimosso la presenza internazionale dell’Italia e i rischi che essa comporta: in Libano, nei Balcani in attesa di vedere quali saranno le ricadute della prossima dichiarazione d’indipendenza del Kosovo, ma soprattutto in un Afghanistan dove la confusione strategica e i dissensi tra alleati sono giunti a un punto critico senza per questo risvegliare la nostra attenzione. Compito che si sono assunti, nel modo più triste, la morte di Giovanni Pezzulo e il ferimento di un altro militare.
Come già nel novembre dello scorso anno, i nostri soldati sono stati colpiti dai talebani mentre recavano aiuto alla popolazione civile. Non vi è motivo di esserne sorpresi: chi soffia sul fuoco del conflitto afghano teme la ricerca del consenso popolare forse più di quanto tema i combattenti nemici, perché è con la conquista pacifica «dei cuori e delle menti», più che con quella armata del territorio, che la Nato può creare le condizioni di un successo.
Dovrebbero indurci a riflettere, questi talebani che fanno saltare in aria chi ricostruisce un ponte e sparano a chi distribuisce viveri. Più che mai in queste settimane, mentre la Nato lavora per «salvare » il summit di Bucarest e tacitamente si chiede se la guerra afghana possa ancora essere vinta.
Gli ingredienti della contesa non sono nuovi, ma nuovo e allarmante è il crescente sentimento di impotenza che sembra essersi impadronito della più potente alleanza militare del mondo. Gli Usa, oltre a rimettere sotto accusa i caveat di chi non manda truppe nelle insanguinate zone meridionali (Italia, Germania, Francia, Spagna), hanno preso di petto anche le capacità e le tattiche di chi in quelle zone combatte e muore (britannici, canadesi, olandesi). Ne è nata un’aspra polemica transatlantica. Gli inglesi sono indignati. I canadesi vogliono altri mille uomini al loro fianco per restare. Il dissenso è esploso anche sul modo migliore per eliminare le coltivazioni di oppio. E i talebani, nel frattempo, continuano ad allargare le loro capacità intimidatorie e il loro controllo del territorio.
Il vertice di Bucarest sarà salvato da una maxi-dose di diplomazia e da Nicolas Sarkozy, che annuncerà il rafforzamento del contingente francese. Nella migliore delle ipotesi anche la signora Merkel si mostrerà possibilista sul nuovo mandato delle forze tedesche che scatterà a ottobre. E per allora altre novità potrebbero forse venire dall’Italia, se sarà Berlusconi a vincere le elezioni. Ma la vera questione, che nessun aumento di truppe combattenti risolverà, è una questione di indirizzo strategico.
Paddy Ashdown, il mancato rappresentante dell’Onu a Kabul (e la sua bocciatura non ha certo alleviato l’irritazione britannica), ha tracciato proprio ieri un quadro cupo quanto realista della situazione: un aumento delle forze militari è certo necessario, ma esso servirebbe a poco se alla ricostruzione dell’Afghanistan la comunità internazionale non dedicasse risorse ben maggiori, se il loro impiego non fosse guidato da un coordinamento oggi deficitario, se non si puntasse al recupero politico di una parte dei talebani per isolare le fazioni più estreme, se le tattiche operative dei reparti alleati non riuscissero a fondersi in uno sforzo coerente.
Ashdown ha ragione, anche quando prospetta la possibilità di una sconfitta occidentale in Afghanistan e avverte che ne deriverebbero la destabilizzazione completa del Pakistan e una nuova aggressività del terrorismo internazionale. La posta è troppo alta per pensare a un ritiro, come fa la nostra ultra-sinistra. Ma se occorre restare, occorre anche darsi una nuova strategia per rovesciare una linea di tendenza ormai chiaramente negativa.
Servono, oltre ai soldati, infrastrutture, acqua e elettricità, posti di lavoro lontani dalla coltivazione dell’oppio, tattiche militari che riducano davvero il numero delle vittime civili, iniziative di dialogo verso la parte meno radicale dei talebani. Non sono forse gli americani, in Iraq, a riabilitare i baathisti di Saddam, a parlare con l’Iran e a lavorare per un governo di riconciliazione? L’Afghanistan è più complesso dell’Iraq, ma quel che viene fatto a Bagdad può essere tentato a Kabul. La prima conferenza internazionale da convocare, dopo l’esercizio di sopravvivenza di Bucarest, diventa allora quella tra gli alleati atlantici. Altrimenti molti sacrifici, come quello che ieri è costato la vita a Giovanni Pezzulo, rischieranno di passare alla storia come morti inutili.
Franco Venturini